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Intesa Israele-Emirati: la nuova geopolitica del Golfo

Gli Accordi di Abramo fra Tel Aviv e Abu Dhabi aprono una nuova stagione per il Medio Oriente, con la possibilità concreta che altri Paesi arabi seguano l'esempio emiratino

La stretta di mano fra Tel Aviv e Abu Dhabi sarà probabilmente un giro di boa nella gestione degli equilibri in Medio Oriente. Arrivata all’indomani del dramma di Beirut, tre mesi prima delle presidenziali americane e in una fase di sostanziale stasi rispetto alle escalation dei mesi pre-Covid, Israele ed Emirati Arabi tracciano un’intesa che, come primo risultato (parziale) ottiene uno stop.

Israele, passo indietro

Quello all’annessione, da parte del governo israeliano, dei territori della Cisgiordania. Uno spicchio di territorio che, nell’economia del Medio Oriente, rischiava di giocare un ruolo decisivo sul piano della destabilizzazione. Per il momento, Israele sembra averci ripensato: niente avanzamento nel processo di annessione e una fase di possibile distensione che, in compenso, ridisegna gli assetti geostrategici di un’intera regione.

Novità nel Golfo

E’ un Golfo Persico che respira aria di novità quello risvegliatosi all’indomani del 13 agosto, giorno della stipula. E, in questo senso e per quanto decisiva, la mediazione Donald Trump non sarà l’unico punto focale dell’intesa. Certo, dopo i risultati parziali raggiunti con la Corea del Nord, nell’ambito di una fase di distensione finita, per ora, in un nulla di fatto sul tema della denuclearizzazione, il presidente annota un risultato importante in vista delle elezioni di novembre.

Un successo in politica estera che, questa volta, gli Usa incassano in veste di mediatori, con la consapevolezza però di uno scenario sostanzialmente ridisegnato, che azzera in un colpo solo le distanze fra i contraenti e consegna alla Storia un rinnovamento radicale nelle loro relazioni, non solo diplomatiche.

I passi sauditi

Per quanto un’intesa non costituisca in sé un fatto eccezionale, vista anche la comune condizione di pandemia che accompagna ormai la quotidianità di quasi tutti i Paesi del mondo, gli Accordi di Abramo costituiscono un precedente importante. Condizioni geopolitiche diverse rispetto a quelle in cui andarono in porto le precedenti intese diplomatiche con Paesi arabi e che, indirettamente, potrebbero favorire l’innesco di ulteriori passi avanti nella normalizzazione delle relazioni di Tel Aviv con altri Stati del Golfo.

All’orizzonte, oltre ai più moderati Oman e Bahrain, un’intesa è plausibile anche con il Marocco (dove vivono circa 30 mila persone di origine ebraica) e addirittura con l’Arabia Saudita che, come spiegato a Interris.it dal direttore di Analisi Difesa, Gianandrea Gaiani, “deve però terminare strategia riformista avviata da bin Salman. Credo sarebbe traguardo finale del completamento” di un processo di trasformazione che potrebbe chiudersi con la decisione di instaurare nuove relazioni con Israele. Scavando, al contempo, un solco sempre più marcato col fronte di chi i termini dell’accordo li ha rigettati.

Il ruolo palestinese

Ranghi che, al momento, comprendono l’Iran (estremamente critico nei confronti di Abu Dhabi) e anche una Palestina che pure, dallo stop al processo di annessione dei territori della Cisgiordania, potrebbe trarre l’indicazione buona per la ripresa del dialogo: “Abu Mazen, come anche Hamas e la Jihad islamica, hanno due possibilità: restare legati a Turchia, Iran e Qatar, isolati nel mondo arabo, o cogliere le opportunità aperte dall’accordo”.

“Israele ha accettato di fermare l’inglobamento delle aree cisgiordane e questo può essere un elemento importante. O i palestinesi cavalcano un’intesa che potrebbe portare a una distensione o accresceranno il processo d’isolamento. Anche perché il mondo arabo sta seguendo la strada degli Emirati Arabi e attori come la Turchia, al di là delle difficoltà imposte dal coronavirus, perderebbero grip e interesse, concedendo priorità ad altre situazioni”.

Relazioni diplomatiche

Per certi versi, gli Accordi di Abramo potrebbero sortire effetti più incisivi anche dei loro predecessori. La stretta di mano fra al-Sadat e Begin a Camp David nel 1978, così come quella fra Ytzhak Rabin e Hussein I nel 1994, a Washington, normalizzarono le relazioni con Egitto e Giordania garantendo un sostanziale equilibrio in contesti di complicati rapporti di vicinato. Con gli Emirati Arabi si certifica e consolida, invece, una cooperazione di massima già avviata e, al contempo, si aprono le porte a una stagione di diplomazia forse impensabile fino a qualche anno fa, che vedrà un’intensificazione del traffico aereo, della cooperazione economica e sanitaria (anche in ambito Covid). E, naturalmente, la creazione di rispettive ambasciate.

L’oasi di fuoco

Un’intesa che, tuttavia, non dovrebbe influire più di tanto nel contesto al momento di maggior crisi del Medio Oriente: “Israele e Libano sono ancora in guerra fra loro. Il fatto che Beirut abbia dato spazio all’ipotesi che l’esplosione del porto possa essere dovuta a un attacco israeliano non accende alcuna miccia. Una politica di aiuti, come quella proposta da Israele, potrebbe portare una distensione ma non alla pacificazione. In Libano, il peso di Hezbollah resta forte e, di rimando, gli Emirati Arabi non ne hanno uno specifico all’interno del Paese. Quello fra Abu Dhabi e Tel Aviv resta un asse che aiuterà altri Paesi del Golfo ad aprire relazioni con Israele”. Bahrain e Oman, che hanno già riservato un plauso al completamento del percorso di dialogo fra le parti, dando l’impressione che nulla precluda a un passo del genere anche con i due regni.

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