In Iraq la lungimiranza diplomatica della Santa Sede aveva segnalato fin dalla prima guerra del Golfo il pericolo di destabilizzare il medio Oriente e il mondo intero. Nel 1991, in occasione della prima guerra del Golfo, Giovanni Paolo II, proponendo di metter mano a una riforma del diritto internazionale, aveva opposto un rifiuto assoluto al ricorso alle armi come strumento per regolare i rapporti tra gli Stati. “La guerra – diceva – è un’avventura senza ritorno“. “Non è una fatalità; essa è sempre una sconfitta dell’umanità”. E, tale convinzione, il Papa l’aveva immediatamente ribadita al profilarsi del secondo conflitto del Golfo (o guerra d’Iraq), per il quale non c’era più nemmeno l’“attenuante” etica di dover porre rimedio a una invasione, quella del Kuwait. In più, nel giudizio di Karol Wojtyla, questa operazione militare internazionale – per le motivazioni stesse che ne erano all’origine – portava in sé un carico enorme di pericolosità. Per il rischio di nuovi estremismi. E di “tremende conseguenze” sia per le popolazioni dell’Iraq sia per l’equilibrio geopolitico dell’intera regione mediorientale.
Nazioni Unite
Papa Wojtyla comunque non si era limitato a mettere in guardia i diretti responsabili, Saddam Hussein, presidente Usa e membri del Consiglio di Sicurezza. Si era anche adoperato – con i suoi “strumenti”, sia spirituali che diplomatici – per una vasta opera di prevenzione. Aveva proclamato una Giornata di digiuno e preghiera per la pace
in Medio Oriente. Aveva parlato di quel gravissimo argomento con molti capi di Stato. E aveva inviato due suoi personali ambasciatori, a Baghdad e a Washington, per un estremo tentativo. Era stato il cardinale Roger Etchegaray, a incontrare i governanti iracheni. I quali, per la verità, si erano detti disposti a collaborare con gli ispettori delle Nazioni Unite (incaricati di verificare che venisse eliminato “ogni motivo di intervento armato“). Ma si erano mostrati assai reticenti circa le accuse di possedere le cosiddette “armi di distruzione di massa“, e di sostenere il terrorismo islamico. Atteggiamento non proprio negativo, ma fortemente ambiguo e, quindi, pericoloso.
Mediazioni
L’altro inviato pontificio, il cardinale Pio Laghi, aveva parlato con il presidente americano, George W. Bush. Il quale, senza neppure leggere la lettera inviatagli da Giovanni Paolo II, aveva risposto che comprendeva perfettamente le ragioni morali del Papa (secondo alcune fonti, invece, si sarebbe detto addirittura convinto che fare la guerra all’Iraq fosse la “volontà di Dio”), ma non poteva ormai tornare indietro. Anche perché aveva imposto un ultimatum di quarantotto ore a Saddam Hussein. Giovanni Paolo II non riusciva a nascondere il dolore lancinante che provava; sentiva tutta l’enormità e, più ancora, l’assurdità della nuova tragedia che stava per esplodere. Il testo dell’Angelus di quella
domenica, 16 marzo del 2003, era un accorato appello alle due parti in conflitto, a Saddam Hussein e ai Paesi che componevano il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, perché trovassero una qualche soluzione pacifica. Ma il Papa, pur tenendo tenacemente accesa quell’ultima speranza, intuiva che la situazione era sul punto di precipitare, e presto sarebbe scattato l’attacco occidentale contro l’Iraq. Ed ecco perché papa Wojtyla, con quella contraddizione che si portava dentro, sembrava facesse fatica – e invece era sofferenza, una profonda sofferenza – a lanciare quel drammatico appello. “Dico a tutti: c’è ancora tempo per negoziare; c’è ancora spazio per la pace. Non è mai troppo tardi per comprendersi e per continuare a trattare. Riflettere sui propri doveri, impegnarsi in fattivi risultati, non significa umiliarsi, ma lavorare con responsabilità sulla pace“.
Appelli inascoltati
Per tre volte, significativamente, il Papa ripeté: “C’è ancora spazio!”. “Non è mai troppo tardi!“. Quell’appello, così angoscioso e insieme così deciso, richiamò subito alla mente – anche per le “novità” che sembrava comportare – i numerosi interventi fatti dai pontefici nell’ultimo secolo per fermare la guerra. Interventi spesso inascoltati, sul momento, ma che erano rimasti nelle coscienze, e avevano fatto maturare un sempre più largo consenso attorno alla causa della pace. Dal grido di Benedetto XV contro “l’inutile strage”, quand’era scoppiata la Grande Guerra; ai pressanti appelli di Pio XII nel tentativo di evitare il baratro della Seconda guerra mondiale. Da Giovanni XXIII, con la sua Pacem in Terris, e l’opera di mediazione in cui si era impegnato al tempo della crisi dei missili a Cuba; a Paolo VI, che aveva istituito la Giornata mondiale della pace. Ed era andato alle Nazioni Unite a ribadire la netta opposizione della Chiesa a ogni guerra. “Non gli uni contro gli altri, non più, non mai!”. Dunque, il magistero pontificio, sulla scia del Concilio Vaticano II, aveva abbandonato definitivamente la teoria classica della moralità della “guerra giusta”. E tuttavia, pur condannando espressamente la guerra totale, pur considerandola sempre un male, non negava ai governi il diritto di “legittima difesa”, una volta esaurite tutte le risorse politiche e diplomatiche.
Occidente
Quando la notte del 20 marzo del 2003 – il 19 marzo a Washington – in diretta mondiale si videro i primi bagliori sulla skyline di Baghdad e il Pentagono annunciò operazione Shock and Awe (‘Colpisci e terrorizza’), sembrava l’inizio di una nuova travolgente guerra dell’Occidente sotto la guida americana dopo l’attacco all’Afghanistan di un anno e mezzo prima, sull’onda dell’11 settembre. L’impulso della Guerra al terrorismo dichiarata da George W. Bush era al culmine. Malgrado le perplessità di molti Paesi europei e le oceaniche manifestazioni contro, l’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein era spinta dalla promessa di una guerra-lampo, e anche “giusta”, contro un nemico pericoloso quanto e più dei Talebani e di Osama bin Laden perché – si disse – era dotato di armi di distruzione di massa terrificanti, che si sarebbero però dimostrate inesistenti. Venti giorni dopo, il 7 aprile, i marines posavano spavaldi nel palazzo deserto del dittatore; il primo maggio, Bush dalla portaerei Uss Lincoln annunciava: “Mission accomplished”, missione compiuta. Finita la marcia trionfale, i problemi arrivarono come una tempesta di sabbia. Il rovesciamento dei rapporti di forza etnico-religiosi. Con la fine della ventennale oppressione della minoranza curda e della maggioranza sciita da parte dei sunniti emarginarono questi ultimi dalla politica e dalla ricostruzione del Paese.
Iraq senza pace
L’ossessione americana di smantellare il potere di Saddam e del partito Baath fece il resto. I dirigenti e ufficiali del vecchio regime divennero il primo fronte interno, lo scheletro di un’insurrezione fatta di agguati e stragi, cui poi diede sostanza Al Qaida. L’invasione anziché stabilizzare l’irrequieto Iraq ne fece invece la più potente insurrezione jihadista mai vista prima – copione poi replicato in Siria e Libia -, con l’entrata in campo di Paesi come l’Iran, che lì iniziarono a giocare un ruolo rilevante. L’amministrazione Bush e i suoi più stretti alleati – in primis il premier britannico Tony Blair – si giocarono in pochi mesi superiorità morale e credibilità, prima con la messa a nudo della bugia sulle armi di distruzione di massa, mai trovate, poi con le atrocità emerse dal “carcere delle torture” di Abu Ghraib. Il conflitto non è ancora del tutto finito. Come non è finita la conta dei morti: secondo il think tank Iraq Body Count, le vittime civili in due decenni oscillano fra quasi 187.000 e 210.000, con un picco di oltre 26.000 nel solo 2006.
Insurrezione sunnita
Hanno perso la vita anche 45.000 soldati iracheni, 35.000 insorti, 4.600 soldati Usa e 3.650 contractor. Morirono anche 53 soldati italiani, 19 nella strage di Nassiriya. Nove milioni di iracheni furono sfollati. Oltre agli invasori, i terroristi presero di mira le forze locali, gli sciiti e infine le folle, per rendere l’Iraq ingovernabile. Malgrado le sanguinose operazioni militari a Mossul e Falluja, roccaforti dell’insurrezione sunnita, la pacificazione rimase una chimera. E dopo la fine dell’occupazione Usa, dichiarata nel 2011 da Barack Obama, che voleva concentrarsi sull’Afghanistan, la situazione si aggravò: i militari addestrati dagli Usa scomparvero con la fulminea avanzata dell’Isis nel 2014. Con un nuovo drammatico picco: quell’anno morirono 20.200 iracheni, l’anno dopo 17.500, nel 2016 16.400.
Coalizioni variabili
Dopo la sconfitta dell’Isis – opera stavolta di coalizioni variabili, spesso contrapposte, guidate da Usa, Francia, Russia, Turchia, Iran, Paesi arabi – ci fu la stagione delle proteste per il disastro economico e l’impasse politico: nuove ondate di violenza, nuovi morti. Certo, le cifre si erano ridotte: i civili morti nel 2021 furono (secondo Iraq Body Count citato da Ansa) 669, 740 nel 2022. Ma il crollo del prezzo del petrolio, il Covid e poi la guerra in Ucraina hanno portato il tasso di povertà dal 20% del 2018 a oltre il 30%. In una popolazione dove il 60% ha meno di 25 anni e non ha mai conosciuto la dittatura di Saddam. Oggi, dicono gli analisti, il rigido sistema di condivisione del potere fra sciiti, sunniti e curdi, imposto per sanare i conflitti e intrecciato a interessi ed equilibri internazionali, pare inconciliabile con un vero governo politico, che possa risollevare le sorti economiche della travagliata antica Mesopotamia.