“Ijime” è il termine giapponese che traduce il “bullismo”, fenomeno contemporaneo di violenza fisica e mentale che ha lo scopo di annullare la vittima prescelta, diffuso non solo nel mondo occidentale. Anche il Paese nipponico, quindi, è vittima di questo flagello. “Ijimeru” è interpretabile con “prepotente”, l’“ijime” è tradotto con “bullismo”, proprio per le affinità che ne possiede. Si tratta, perciò, di una serie di comportamenti aggressivi, a livello fisico e psicologico, che colpiscono una persona, costringendola all’isolamento (l’hikikomori) o ad atti estremi.
A questa fase, in cui si concentrano tutte le “attenzioni” del singolo e del gruppo, per la mortificazione del perseguitato, ne subentra, spesso, un’altra, chiamata “shikato”. In tale situazione, nei confronti della vittima, dimenticata nel suo dramma, subentrano silenzio e indifferenza. L’alternanza immediata e perversa, fra questi due atteggiamenti contrari, produce danni psicologici enormi. La caratterizzazione psicologica è notevole; il responsabile punta a colpire soprattutto dal punto di vista mentale.
Il mondo giapponese, seppur così apparentemente ordinato, rispettoso dei doveri, pacifico e sorridente, mostra al suo interno, tuttavia, un lato conformistico molto esasperato che tende a isolare e a non accettare le diversità, a cui riserva, quindi, condanna, scherno e indifferenza.
La piaga dell’hikikomori, dell’isolamento dei giovani giapponesi che rifiutano la socialità e hanno rapporti con l’altro solo attraverso il web, è nota da tempo. È un grave atteggiamento di rifiuto che spegne questi giovani giapponesi e, con loro, gradualmente, anche i coetanei occidentali. La causa del fenomeno è nel conformismo divenuto inaccettabile, a cui è difficile opporsi. Nei casi in cui la diversità emerga, a livello fisico e culturale, viene rimossa dai pari con un severo atteggiamento di bullismo. La vergogna della diversità e l’impossibilità di esprimere la propria identità spingono a un passivo isolamento o a un nascondersi, pena repressioni dei pari, prima ancora che sociali e delle istituzioni. Tali atteggiamenti sfiorano gravità assolute, di totale rifiuto anche del rapporto con la propria famiglia, sino al suicidio.
La cultura conformista giapponese si riflette da subito, dall’età infantile, in cui l’animo con cui si scopre il mondo circostante rimarrà spesso, salvo aggiustamenti legati alla crescita, fisica e culturale, lo stesso “monolite” fino alla vecchiaia, senza scossoni. Poche le voci che si oppongono all’omologazione diffusa, la ribellione è più di carattere interiore, in una lacerazione dell’anima che vorrebbe tradursi in una dura condanna sociale ma non ne ha il coraggio.
Il conformismo si delinea già nelle divise che gli studenti devono indossare per recarsi a scuola: per alcuni è un giusto livellatore sociale, per altri è un tarpare l’individualità e la personalità.
“Giappone” (sottotitolo “Storie di una nazione alla ricerca di se stessa”), è il titolo del volume realizzato da Christopher Harding, giornalista, storico e professore universitario, edito da “Hoepli” nel 2020. L’autore esamina a fondo le contraddizioni sociali di uno Stato avviato al cambiamento, con un’attenzione particolare a tutte le varie figure che sono rimaste legate alla tradizione e che soffrono il nuovo volto del Paese. A difesa della persona e del rispetto a cui ha diritto, San Paolo VI affermava “La dignità dell’uomo richiede che le sue opere siano frutto della sua libera scelta, senza nessuna coercizione esterna”.
Il link http://popolazione.population.city/giappone/ offre numerosi dati, in tempo reale, riguardanti la popolazione del Paese nipponico. I numeri sono in continuo aggiornamento. Per avere un’idea: la popolazione raggiunge i 124,847 milioni di individui. Per capire il fenomeno giovanile a livello quantitativo, nella fascia 10-14 anni di età ci sono 2.695 mila individui maschi e 2.568 mila femmine; in quella 15-19 2.902 mila ragazzi e 2.772 mila ragazze. Nella fascia 20-24 sono 2.915 mila e 2.796 mila. Il Paese, notoriamente longevo, è abitato da 74 mila ultracentenari. Per un confronto con l’Italia: popolazione 59,820 milioni, le 3 fasce di età si assestano intorno a un milione e mezzo di maschi per ognuna, tutte in leggera prevalenza su quella femminile.
Il sito traveltherapists.it, al link https://traveltherapists.it/bullismo-in-giappone-aumento-vertiginoso-fra-i-bambini-piu-piccoli/ riporta “In Giappone nell’anno scolastico 2019/2020 ben 60 mila casi di bullismo in più rispetto al 2018. I casi di bullismo riconosciuti in Giappone, dalle scuole elementari, medie, superiori nell’anno scolastico 2019/2020, sono aumentati di circa 60 mila rispetto all’anno precedente. Attualmente siamo a un record di 612.496 casi come riportato la settimana scorsa dal ministero dell’Istruzione giapponese. Il trend degli atti di bullismo è in aumento vertiginoso fra i bambini più piccoli delle elementari. Un incremento davvero preoccupante per i più piccoli”. Il ministero precisa anche che l’età in cui si iniziano a praticare atti di bullismo diviene sempre più giovane.
Altri dati del fenomeno, relativi al 2019, sono evidenziati al link https://viaggiareingiappone.it/percentuale-di-bullismo-in-giappone/ “Numero di atti violenti: 78.787. Numero di studenti delle medie ed elementari che hanno lasciato la scuola: 181.272 (il più alto di sempre). Numero di studenti delle superiori che hanno lasciato la scuola: 50.100. Numero di suicidi dovuti al bullismo: 317”.
Nella mentalità giapponese contemporanea, frutto di un’accettazione “stoica” degli eventi (a partire dalle bombe atomiche del secondo conflitto mondiale), si è fatta strada l’accettazione del fato e della finitezza umana (a differenza degli ideali mistici, spirituali e cavallereschi del passato). Tuttavia, a proposito della vulnerabilità umana, il singolo ha bisogno di riconoscerla tale anche negli altri, in un’uguaglianza della contingente e precaria condizione umana. Il bullismo infrange anche questa democratizzazione della semplicità e conduce a una vergognosa diversità, impossibile da sostenere.
Si fronteggiano due mentalità diametralmente opposte che finiscono per provocare lacerazioni sociali. Tra queste, si pensi, a esempio, al gran numero di individui (circa 100 mila) che, ogni anno, decidono, a seguito di imprevisti, di fallimenti nel lavoro o nell’amore, di “evaporare” al fine di sparire a livello amministrativo e anagrafico. La mentalità collettivistica del Paese, dunque, si riflette, in negativo, anche in questi atti di denigrazione, condotti da cerchie molto ampie (quasi l’intera classe), senza molte prese di posizione contrarie. Al tempo stesso, la concorrenza a livello economico, introdotta gradualmente, con fatica, nel Paese asiatico dopo il 1945, ha generato un atteggiamento individualista prima sconosciuto, che porta gli individui a sfruttare la debolezza del prossimo pur di ricavare onori, potere e prestigio, sia pur a livello di rispettabilità sociale tra adolescenti. La società non è più quella feudale e comunitaria di un tempo, eppure l’apertura all’Occidente non ha ancora prodotto la tolleranza e il rispetto auspicati.
Le istituzioni sono corse ai ripari e, attraverso, film, manga e libri, stanno veicolando messaggi educativi e rispettosi del prossimo; in quest’opera si sollecita anche il corpo docente a segnalare e a intervenire, visti (altra particolarità rispetto all’Italia), purtroppo, casi di indifferenza e di “collaborazionismo”.
Una legge specifica è stata introdotta nel 2013 per ridurre ed eliminare il problema. Le attenzioni, in Giappone e nel resto del mondo, tuttavia, devono essere rivolte in maniera continua e aggiornata a quel mondo, parimenti in divenire, rappresentato dai social, dove si consumano le forme più moderne, altrettanto inammissibili, gravi e perverse, di bullismo.
Disagi sociali e piaghe di violenza, odio e disprezzo per la vita e le istituzioni si rispecchiano, così, anche nei Paesi tradizionalmente considerati sani, proiettati al lavoro, alla famiglia, per di più inseriti in un’economia forte in grado di distribuire redditi elevati. La cultura del diverso e del fragile non trova riconoscimenti, né nei Paesi poveri né in quelli ricchi, in una globalizzazione dell’indifferenza, dell’individualismo e del “fare comunità” solo per aggredire un prossimo designato per la sua debolezza.