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I sepolcri del nostro tempo

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Qualcuno ha avanzato paragoni con l’attacco a Pearl Harbor. Altri ancora hanno parlato di Manhattan e delle Twin Towers, rase al suolo dagli attacchi dell’11 settembre di 19 anni fa. Ma anche il coronavirus sta chiedendo una dura prova a New York, diversa da quelle tragedie, portate rispettivamente dalla follia della guerra e del terrorismo. Il Covid-19, nella Grande Mela come nel resto del mondo, si è insinuato fra le maglie della società, andando a prendersi la quotidianità di lavoratori e famiglie, che poi del resto fanno tutt’uno, di istituzioni e cittadini, catapultati in una sfida più grande di loro. Inattesa, come gli attacchi dei giapponesi alle Hawaii e i Boeing dirottati sui grattacieli del World Trade Center. E anche il prezzo, come allora, è stato elevato. Esorbitante per numero di vittime, drammatico perché rivelatore di una società colpita al cuore, privata perfino, in molti casi, dei più essenziali diritti.

Foto © Vatican Media

Senza nome

In un contesto di sofferenza, dei comparti sanitari come del cuore delle persone, anche una città come New York ha ceduto all’ondata del male, che oggi assume le sembianze di un male invisibile. E le difficoltà finisce per sperimentarle, inevitabilmente, anche chi ha il compito di disporre i corpi dei deceduti. La Grande Mela si riaffaccia in un passato lontano, quando le epidemie era più devastanti di quanto le forze umane potessero concepire, decretando l’uso di fosse comuni per seppellire i propri morti. Oggi è Hart Island, nel Bronx, a ospitarne una, in fase di scavo, pronta a contenere i corpi di coloro che non hanno sconfitto il coronavirus, così come secoli fa si usava per chi non aveva una famiglia, o nessuno che potesse ottenere per lui una sepoltura senza omettere di ricordare il suo nome. Riportando alla luce la considerazione foscoliana delle “umane lodi” e dell'”amoroso pianto” descritte ne I Sepolcri, indicate come pietra d’angolo per la dignità degli “estinti”.

Uccisi dall’indifferenza

Il Covid-19 ci ha costretti a rivedere anche questo. Squarciando il velo di normalità della società del Duemilaventi per mostrarne le debolezze. Mettendone alla prova le convinzioni, la quotidianità stessa della vita di ogni giorno. Ma, allo stesso tempo, evidenziando una volta di più i troppi vuoti nelle coscienze collettive, le ingiustizie delle periferie del mondo, costrette ad affrontare l’ennesima emergenza, senza scorgerne troppe differenze rispetto alle precedenti. Realtà dimenticate, seppellite dall’indifferenza. Lacune storiche, minoranze vessate, come quella dei Rohingya, bloccati dal governo del Bangladesh in un distretto a sud del Paese, col divieto assoluto di muoversi di lì. In un contesto fatto di assembramento e scarse condizioni igieniche, un milione di persone assembrate in un agglomerato urbano fatto di case di tela in cui il contagio non sembra aver ancora preso piede ma, in caso, costituirebbe una potenziale catastrofe. Una realtà di sofferenza che carica su di sé il vessillo che raffigura i sepolcri del nostro tempo, non dissimile, forse, da altri scenari di disagio umanitario e sociale. Dall’Africa, attraversata da un’emergenza pressoché continua, ai campi profughi alle porte dell’Europa, come quello di Lesbo. Senza considerare aree del mondo dove la popolazione civile paga lo scotto dei fratricidi conflitti civili, dallo Yemen, con la progressiva disgregazione della sua impalcatura sociale, alla Siria, che scopre anch’essa il fianco all’epidemia in un momento storico fin troppo simile a quello di ieri.

A tutela della vita

Il Sabato Santo, giorno del silenzio, scandito dalla meditazione dell’umanità attorno a una pietra di peso immenso posta davanti al sepolcro di Cristo, costringe il mondo di oggi, anche nella particolare e deleteria realtà del coronavirus, a non dimenticarsi delle sue piaghe. E, soprattutto, a ergersi in difesa della vita. Poiché è nella sofferenza dei nostri tempi che, in qualche modo, si può imparare a riconsiderare il valore di un’esistenza che nella frenesia dell’oggi spesso trascuriamo di comprendere. E in parte continuiamo a farlo, se anche in un’epoca di morte si considera lecito consentire alla vita di essere fermata ancor prima di nascere. La pietra sepolcrale forse più pesante, in un’epoca in cui la tragedia mette a nudo tutte le fragilità del nostro vivere insieme. Con la speranza che, all’indomani della tempesta, arriveremo a ricordarcene.

Damiano Mattana: