Oggi, giovedì santo, all’Altare della Cattedra, nella Basilica di San Pietro, alle ore 18, Papa Francesco celebra la Santa Messa nella Cena del Signore. La processione iniziale si svolge, come è accaduto la Domenica delle Palme, dall’altare della Confessione a quello della Cattedra passando dal lato “altare di San Giuseppe”. Nel corso della celebrazione non ha luogo il rito della lavanda dei piedi (già facoltativo) e la processione offertoriale. Si omette, inoltre, la reposizione del Santissimo. Ma quali sono i piedi sporchi del mondo nel lavacro planetario del giovedì santo? Interris.it, continente per continente, ha ricostruito le colpe “glocal” da purificare in un’attualizzazione del gesto di umiltà e misericordia compiuto da Gesù durante l’ultima cena. A partire dai “piedi sporchi” che trasversalmente uniscono tutti e cinque i continenti tessendo la ragnatela diabolica della tratta di esseri umani che qui, per esemplificare, localizziamo in Africa ma che ha origine, transito e destinazione a ogni latitudine e che alimenta il terzo business illegale dopo il traffico di droga e quello di armi.
Africa (tratta di esseri umani)
Don Aldo Buonaiuto, sacerdote di frontiera della Comunità Papa Giovanni XXIII, ha auspicato nel suo librio”Donne Crocifisse” (Rubbettino, con la prefazione di papa Francesco) l’effettiva abolizione della schiavitù. Certo, ufficialmente la tratta degli schiavi non esiste più dal 23 febbraio 1807 quando fu cancellata a larga maggioranza (cento voti contro trentasei) dal parlamento inglese, cuore della super potenza coloniale dell’epoca. Alla fine del XIX secolo un po’ tutti i Paesi del mondo hanno messo al bando l’asservimento degli esseri umani. In realtà basta raffrontare la pratica con la teoria per accorgersi che non è così. Sui marciapiedi delle nostre città sembra scolpita una condanna antropologica: quella di trasformare la sopraffazione in una modalità di relazione sociale. Le vittime della prostituzione coatta sono le moderne schiave e finché non saranno liberate non potrà essere dichiarata la concreta, effettiva abolizione della schiavitù. Ci sono altre odiose forme di asservimento che hanno sempre come bersaglio le persone più fragili e indifese, ma la tratta del mercimonio coatto ha questa peculiarità: si distrugge la libertà di un individuo per farne uno strumento dei propri istinti più primordiali, eticamente riprovevoli, socialmente distruttivi. Il costo personale e collettivo della tratta grava come un macigno sulla nostra civiltà cosiddetta post-moderna, ma sempre agganciata alla zavorra di condotte violentemente primitive. “Mai più vorrei vedere persone in vendita- afferma don Buonaiuto-. Per nessun motivo, con nessun pretesto, per nessuna ragione al mondo. Al contrario nella società odierna dilaga sotto traccia la tentazione strisciante di attribuire un prezzo a qualunque condizione, situazione, circostanza”. Lo dicono esplicitamente i più spregiudicati broker finanziari di Wall Street: “ognuno ha il cartellino come le merci”. Ma se tutti hanno un costo, nessuno ha valore“. E aqggiung: “Non ci sarà adeguato risarcimento morale e comunitario per le donne crocifisse finché i governanti dei loro Paesi di origine, di transito e di destinazione della tratta non si inginocchieranno pubblicamente per implorare il perdono delle loro figlie più fragili e ferite. Questo “mea culpa” per avere significato nella storia universale, deve avvenire all’interno delle istituzioni di ciascuna nazione e poi trovare compimento collettivo in un solenne momento condiviso al Palazzo di vetro, per una volta Casa davvero trasparente dell’Onu”.
America (traffico d’armi)
Un report del Congressional Research Service afferma che negli Usa circolerebbero 357 milioni di armi da fuoco contro una popolazione di soli 318,9 milioni di persone. Secondo il report, il 20% dei possessori possiede il 65% delle armi. Gli Usa, documenta Focus, ospitano il 4,4% della popolazione terrestre, ma il 42% dei civili armati del mondo. Ogni qualvolta un politico o un’associazione propongono una legislazione più restrittiva sul possesso di armi da fuoco, politici e le lobby pro armi, come la potente National Rifle Association (Nra), si appellano al Secondo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che dice: “Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto“. I suoi critici, tuttavia, fanno notare che si tratta di un articolo adottato il 15 dicembre 1791, in tempi decisamente differenti, con armi molto diverse: allora, moschetti che sparavano al massimo 2 o 3 colpi al minuto; oggi armi automatiche che arrivano a sparare anche 100 colpi al minuto. Kieran Healy, sociologo alla Duke University, ha ricostruito i decessi da arma da fuoco negli Stati Uniti e negli altri paesi sviluppati. Il gap è evidente: gli Usa detengono il triste record di maggior numero di omicidi per armi da fuoco di qualunque altro Paese occidentale (6 volte più del Canada, 16 volte più della Germania). In buona parte degli Stati americani chiunque abbia più di 21 anni può acquistare una pistola, mentre i maggiori di 18 anni possono acquistare un fucile o un fucile a canna liscia. Basta presentare un documento di identità: il venditore si limita a registrare i dati e associarli all’arma (ma nelle vendite tra privati la legge è meno restrittiva). Gli Stati con più armi da fuoco sono anche quelli con il maggior numero di omicidi violenti e di suicidi (non vale solo per gli Usa, ma per tutti i Paesi industrializzati). Altri fattori come una più alta densità abitativa, più stress o un maggior numero di immigrati, evidenzia Focus, non sono correlati a un aumento di morti per armi da fuoco. Gli Stati con la maggiore circolazione di armi sono anche quelli con il maggior numero di uccisioni per arma da fuoco attribuite alla polizia. Dal 9 agosto 2014 (quando fu ucciso il giovane Michael Brown a Ferguson, nel Missouri) ad oggi, queste morti sono state oltre tremila.
Australia (alcolismo)
L’abuso di alcol tra i giovani tende ad essere più alto nei paesi ad alto reddito, come le nazioni europee, l’Australia, il Canada e gli Stati Uniti. Si parla di percentuali che superano il 20% dei giovani che ne fanno uso. . L’abuso di alcol è anche l’ effetto della mancata integrazione delle minoranze. Tra gli aborigeni dell’Australia come per gli indiani d’America, la piaga dell’alcolismo dilaga. Un’emergenza sanitaria e sociale che sta mettendo a repentaglio la stessa esistenza dei nativi australiani. Da anni si cercano invano delle soluzioni, tanto che la città di Alice Springs, nello stato di Northern Territory, ha deciso, con una misura senza precedenti, di vietare la vendita degli alcolici nei locali pubblici. In caso di violazione del bando sono previste multe salatissime per i gestori. Si è trattato, riferisce Vita, di un provvedimento fortemente sollecitato dai residenti, sempre più allarmati dalla fiammata di violenza e microcriminalità, imputabile in buona parte anche al crescente consumo d’alcol soprattutto tra gli aborigeni. Per il suo “grog”, bevanda composta con il rum molto amata dagli aborigeni, Alice Springs era diventata un centro di forte richiamo per le comunita’ vicine, tanto da essere ribattezzata “River of grog“. Il dilagante fenomeno dell’alcolismo, per le autorità locali ma anche federali, è inoltre considerato come la prima causa di violenza e abusi su minori. Ad Alice Springs, situata nel pieno del deserto, è frequante, riferisce Vita, vedere gruppi di aborigeni che bevono birre e liquori, seduti su un marciapiede, o che dormono completamente ubriachi nei parchi cittadini. Secondo le stime dell’Oms più di un quarto dei ragazzi di età compresa tra i 15 e i 19 anni consumano alcol regolarmente. Tra questi circa 22 milioni vivono in Europa, 22 milioni in Africa, 37,9 milioni nel Sud-Est asiatico, 29,9 milioni nelle Americhe e ben 41,9 milioni nell’area del Pacifico occidentale. Le cifre dell’Organizzazione mondiale della sanità riflettono il consumo generale dell’alcool a livello planetario.
Europa (corruzione)
Secondo l’ultimo rapporto di Transparency International i sei paesi più corrotti d’Europa sono (Bulgaria, Romania, Ungheria, Grecia, Slovacchia e Italia). Transparency International ogni anno classifica le nazioni sulla base del livello di corruzione percepita nel settore pubblico, assegnando un punteggio da 0 (molto corrotto) a 100 (per niente corrotto). La corruzione, riferisce il Sole24Ore, è un fenomeno diffuso in tutta Europa, ma in Italia lo è anche di più. Stando ai dati dell’European Regional Competitiveness Index, vi è un gradiente che si muove dal Nord al Sud dell’Europa sui fenomeni corruttivi che riguardano i cittadini. Tuttavia i dati presi in esame si riferiscono solo alla percezione del fenomeno, non a quella vera. Una cosa, infatti, è avere l’idea che esistano tangenti e mazzette (o favori di altro tipo) verso la politica, la pubblica amministrazione o sui luoghi di lavoro; altra cosa è invece essere stati coinvolti oppure testimoni diretti di questi fatti. In molti ambiti, evidenzia il quotidiano della Confindustria, ricerche campionarie sulla percezione di fenomeni tendono a sovrastimare (o sottostimare) un problema. A riprova di questo, una recente indagine di Istat fa emergere la misura della corruzione con maggiore precisione, indagando la conoscenza e il coinvolgimento in atti illeciti e prescindendo sia, da un lato, dall’idea che i cittadini hanno (la percezione, appunto), sia, dall’altro, dalle denunce (visto che la complicità di corrotti e corruttori potrebbe non far emergere il fenomeno nelle sue dimensioni reali). I dati attestano il sentimentche i cittadini di una regione europea hanno sul funzionamento corretto della burocrazia e dei rapporti con i servizi pubblici in quel luogo. Laddove i fenomeni corruttivi non vengono percepiti come un problema, vi è anche maggiore fiducia che l’azione pubblica si svolga nell’interesse dei cittadini. Viceversa, dove vi è sfiducia e rassegnazione, è probabile che il risultato della Pa sia comunque considerato inefficiente perché “inquinato” da interessi privati, indipendentemente dal fatto che lo sia o meno.
Asia (Abusi sui minori)
Lo strano silenzio asiatico sulla piaga devastante della pedofilia. A giudizio della Congregazione per la Dottrina della Fede, la Chiesa cattolica in Asia trova difficoltà a combattere la pedofilia “a causa delle differenze culturali” e della “diversa interpretazione su cosa costituisca abuso di minori“. Il problema è molto accentuato in Asia, ha riferito monsignor Charles Scicluna, l’ex promotore di giustizia presso la Congregazione per la dottrina della fede, a margine del simposio internazionale contro gli abusi sessuali del clero organizzato all’Università Gregoriana di Roma. Per fronteggiare l’”emergenza Asia”, monsignor Scicluna aveva riunito a Bangkok i leader delle conferenze episcopali asiatiche per un incontro senza precedenti a porte chiuse. “Sta gradualmente maturando nelle Chiese asiatiche la consapevolezza che esistono abusi e che occorre fare qualcosa”, disse Scicluna. Però, con l’eccezione di quello delle Filippine, gli episcopati asiatici si sono mossi in ritardo per adeguarsi alle linee-guida contro la pedofilia richieste dalla Santa Sede. “In alcune culture è particolarmente difficile per le vittime uscire allo scoperto e denunciare gli abusi. Stiamo dibattendo con i vescovi asiatici come cambiare una cultura che favorisce il silenzio”, evidenziò Scicluna. Per questo sono ancora pochi i casi di abusi denunciati in Asia rispetto alle migliaia di segnalazioni in Europa e negli Stati Uniti. Attenzione alle vittime, capire bene il problema per poter agire bene e con determinazione. Aiutare le chiese di tutto il mondo a formulare piani pastorali efficaci. Prevenzione e formazione. Scicluna ha riferito inoltre di missioni sue in diverse parti del mondo, tra cui America Latina e Asia, per sostenere il cammino delle chiese locali nell’intervenire contro questi crimini. Primo scopo, ha spiegato l’ex promotore di giustizia vaticano, è la “coscientizzazione: capire bene il problema, il fenomeno triste degli abusi sessuali su minori da parte dei chierici; ma anche poi la determinazione di agire bene perché noi, come Chiesa cattolica, possiamo anche in questa materia così pesante, dare l’ottimo esempio che spetta anche alla nostra missione evangelica“. L’attenzione principale, assicurò il presule, è alle vittime, sarà di una di loro il primo intervento, ma la Chiesa deve occuparsi anche dei “chierici che hanno fatto del male“. Per quanto riguarda la prevenzione, monsignor Scicluna ha segnalato din dal 2012 che “deve nascere dalla base: non solo dall’alto, ma dalla base e dev’essere anche nelle famiglie, nelle scuole, nelle parrocchie: come individuare comportamenti a rischio? Come aiutare i ragazzi e le ragazze, i giovani, a difendersi dall’interferenza maliziosa altrui?“. Resta la necessità di collaborare con le autorità civili. “Parliamo di un fenomeno molto triste che non solo è peccato, ma anche delitto. In quanto delitto, c’è la giusta giurisdizione dello Stato e c’è il dovere di collaborare con questa giurisdizione penale statale- ha detto Scicluna-. La tolleranza zero è frutto della determinazione mostrata negli anni dalla Chiesa contro gli abusi del clero. Prima dal beato Giovanni Paolo II, che ai cardinali americani nel 2002 aveva detto: “Non c’è posto nel ministero ecclesiale per persone che possono danneggiare, dare scandalo ai giovani“. E poi anche la leadership molto forte di Benedetto XVI, che è stata di grande ispirazione per tutti perché “si faccia bene e si faccia prima di tutto quello che possiamo per prevenire e, dove c’è la ferita, per curarla con attenzione e con amore”. Infine la radicale purificazione anti-pedofilia condotta da Francesco.