“Hate speech” (incitamento all’odio) è un discorso violento e discriminatorio, effettuato sul web, per offendere un singolo o un gruppo, in base a “motivazioni” razziste e insensate. Si tratta di una piaga di portata mondiale e in crescendo con il peso sempre più imponente dei social. La cronaca riporta, spesso, appelli e denunce di persone comuni o di Vip (cantanti, attori, giornalisti e politici), aggrediti da campagne di offesa e diffamazione tramite il web, dimostrando la trasversalità del fenomeno. Un corollario gravissimo di tale violenza si esprime nel cyberbullismo.
Le ingiurie, razziali, di carattere territoriale, sessiste, religiose, nel passato si esprimevano verbalmente e, in pochissimi casi, qualcuno si spingeva a “lasciar traccia” sulla carta stampata, pena sanzioni e deplorazione sociale. Ora la situazione è diversa, poiché il web e i social permettono di diffamare “con traccia, senza il tracciante”. L’hater, nascosto nell’anonimato, è interessato a lasciar scritta la sua offesa, perché sia ben visibile, certificata, tale da creare il maggior disagio possibile. La non presenza, la mancata interazione fra “odiatore” e vittima, concede al primo un vantaggio di cui approfitta quasi impunito.
Tale violenza verbale ha lo scopo principale di annientare colui che viene considerato un avversario, in primis dal punto di vista della dialettica, fino a zittirlo e a incapacitarlo nel diritto di parola, di espressione. L’esclusione è, quindi, il “motore” che muove l’hater.
“Odio, ergo sum” (odio, dunque sono). Parafrasando Cartesio, si potrebbe riassumere in questa locuzione la certezza e l’obiettivo al quale aspira l’odiatore. La violenza che esprime e le ferite che commette, gli donano la forza diabolica per quell’unico scopo di vita che ritiene esistere. Si annienta il nemico per difendersi e per imporre il proprio concetto, assoluto e incontrovertibile, di ciò che sia giusto o sbagliato.
L’intolleranza del web è la punta, l’aspetto deteriore a livello gerarchico. Si parte, infatti, da una base costituita dalla piccola polemica, sino a crescere, a puntare i piedi (e i tasti), nel voler vincere e, soprattutto, convincere. Il crescendo wagneriano della polemica è sistematico ed è frutto degli aspetti più bassi dell’essere umano, disconoscendo il rispetto, il dialogo, il sano confronto, la condivisione delle idee altrui senza disprezzarle. L’alterità del web esiste solo per essere offesa, per sublimare gli istinti più biechi e le frustrazioni più squallide.
Occorre capire il più possibile il fenomeno dell’odio digitale, speculando su vari aspetti. Uno di questi, poco considerato, merita, invece, un approfondimento: la difficoltà del dialogo e dell’accettazione dell’opinione discordante, è enorme e diffusa ovunque. Un paradigma, in questo senso, è rappresentato dalla polemica onnipresente e continua, addirittura in quei gruppi, culture e subculture, che nascono per conservare valori comuni e condivisi. Le polemiche, trasformate in ripicche, prese di posizione, risposte piccate sino all’offesa nascono, a esempio, anche nei gruppi di Facebook dei tifosi di una stessa squadra di calcio; l’opinione diversa su un aspetto, in un settore che è vitale nel panorama italiano (guai a passare per inesperti di pallone) può scatenare rabbia. Episodi simili si riscontrano in comunità religiose del web dove i pareri personali possono generare dure prese di posizione. Altri esempi si riscontrano nel fragile equilibrio di gruppi di scuola, di vecchi amici e altro, su piattaforme quali WhatsApp. Il web, come altri mezzi di comunicazione, non va criminalizzato in sé; è l’uso, distorto e negativamente strumentale, che se ne compie, a rappresentare un’amplificazione di un’intolleranza comunque presente nella società.
Papa Francesco, il 2 novembre scorso ha ricordato “Da semplici discepoli del Maestro diventiamo maestri di complessità, che argomentano molto e fanno poco, che cercano risposte più davanti al computer che davanti al Crocifisso, in internet anziché negli occhi dei fratelli e delle sorelle. Diventiamo cristiani che commentano, dibattono ed espongono teorie, ma non conoscono per nome neanche un povero, non visitano un malato da mesi, non hanno mai sfamato o vestito qualcuno, non hanno mai stretto amicizia con un bisognoso”.
Gli studi attuali hanno verificato quanto l’hater dimostri il suo lato offensivo nel momento in cui si pone dinanzi alla tastiera e alla Rete, per tornare una persona “normale” quando non è più connesso. In alcuni soggetti, quindi, la consapevolezza di poter essere letto e temuto, attraverso anonimi messaggi, scatena una violenza inaudita. È il mezzo che, in loro, estrae l’istinto più bieco.
La professoressa Raffaella Petrilli è l’autrice del volume “Hate speech” (sottotitolo “L’odio nel discorso pubblico. Politica, media, società”), pubblicato da “Round Robin Editrice” nel gennaio 2020. Il testo approfondisce il fenomeno dell’odio on line attraverso diversi aspetti: giuridico, semiotico, linguistico e filosofico.
Il sito “Parole O_stili” persegue “Un progetto sociale di sensibilizzazione contro la violenza delle parole”. Fra le iniziative, vi è un sondaggio del 2019, su un campione di 1.200 persone. Al link https://paroleostili.it/ricerche/odio-e-falsita-in-rete-la-percezione-dei-cittadini-a-distanza-di-due-anni/, si legge “In crescita del 4% anche il rischio di subire episodi di odio e di violenza verbale (bullismo, diffamazione, denigrazione, ecc): dall’11% del 2017 per arrivare al 14% del 2019. In salita anche la percentuale di chi crede che sia in corso un processo di decadimento del linguaggio (+4%): dal 9% al 13%. Gli utenti della Rete sono sempre più convinti che ormai i nostri dibattiti on line si svolgano solo attraverso le estremizzazioni delle opinioni (+5%): dal 7% del 2017 al 12% del 2019. A conferma che il web viene percepito come terreno ostile per un confronto costruttivo. […] Sconfortante, invece, quel 68% che si è rassegnato alla violenza verbale online considerandola il nostro nuovo modo di comunicare ai tempi di internet. Una nota importante va fatta sui dati riferiti alle vittime di hate speech. È in diminuzione rispetto al 2017 la percezione che a subire linguaggi violenti siano i migranti (-12%) – si passa dal 20% del 2017 all’8% del 2019 – i politici (-8%) – dal 22% al 14% – e le donne (-8%), dal 19% all’11%. In aumento, invece, l’idea che le nuove vittime siano le forze dell’ordine (+3%): se nel 2017 era il 6% adesso cresce fino al 9%. Invariate restano le percentuali per omosessuali, personaggi dello spettacolo, disabili”.
La legislazione, internazionale e nazionale, si dimostra ancora poco efficace rispetto alla gravità delle conseguenze che l’odio in digitale comporta. In Italia non è ancora presente una regolamentazione specifica. Fra le problematiche più importanti dei nostri giorni va inclusa, quindi, questa guerra del disprezzo e la relativa impunità. Occorre fermare chi la esercita e distrugge, così, mentalmente e fisicamente, giovani e meno giovani. È il momento di abbandonare le parole e di arrivare, velocemente, a eliminare la piaga. Non si può attendere. Le tante vittime non possono aspettare.
Qualcuno ha ricollegato la triste calamità a una mancata educazione nell’uso del web e, risolta questa, il sistema dovrebbe pervenire a una sorta di autoregolamentazione. Probabilmente, tale educazione andrebbe intesa a livello primario e generale; poi, applicata al web e, nella fase distorta e cronica in cui è approdata, intervenire con le dovute sanzioni.
Il “Codice di condotta per contrastare l’illecito incitamento all’odio online” che impegna i social a segnalare ed eliminare i temi offensivi, ha permesso, nel 2020, di rimuovere il 71% dei contenuti violenti, contro il 28% del 2016.
La pluralità delle idee e la libertà espressiva ribadita dall’art.10 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo non va confusa, inconsapevolmente o in malafede, con l’anarchia del “libera tutti” per poter scrivere ciò che si vuole, senza freno. Il secondo comma dell’articolo, infatti, recita “L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui”. L’articolo 14 ribadisce il “divieto alla discriminazione”.
Il cattivo esempio viene dai media, dalle affermazioni di politici e opinionisti, in cui, a volte, la durezza delle loro affermazioni e lo “scivolone” dialettico di turno, sono colti dai giovani come una legittimazione e un’iniziazione all’odio, con tendenza ad aumentare, progressivamente, il livello dell’offesa. L’hater considera normale il suo atteggiamento poiché vede l’aspetto deteriore dell’essere umano, incapace di confrontare le idee e, hobbesianamente parlando, uno contro l’altro, come uomo che mangia altri uomini.
L’hater deve essere consapevole, invece, come a fronte delle arene che vede in tv, ci siano tante agorà dove il rispetto è valore condiviso, in cui il confronto non genera paura né istanze di offesa e difesa, senza la criminalizzazione della diversità. Nel contesto nazionale, si ricorda l’articolo 595 (Diffamazione) del Codice Penale con le recenti pronunce, alcune legate al web. Si tratta di nuove modalità di esecuzione, di reati già previsti e sanzionati, che esigono una peculiare trattazione. È importante citare la Legge del 29 maggio 2017, n. 71, recante “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”. Il D. Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 “Attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI”, è entrato in vigore il 20/01/2016.
L’Oscad (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori) dal 2010 “Opera presso il dipartimento della Pubblica sicurezza, direzione centrale della Polizia criminale, per fornire un valido supporto alle persone vittime di reati a sfondo discriminatorio (hate crime o crimini d’odio), agevolare la presentazione di denunce e favorire l’emersione di quei reati”. Ciò che bisogna innanzitutto sconfiggere, risanando dalla radice quel male esteriore che si riverbera in Internet, è l’apatia, l’indifferenza, la sottovalutazione del fenomeno. I crimini d’odio non rappresentano goliardia e le vittime non devono alzare le spalle né vergognarsi o aver paura di denunciare. La società deve prendere consapevolezza di tali atti criminali con conseguenze altrettanto gravi, per giovani e adulti. La prima forma di lotta al “discorso d’odio” deve venire dal basso, bloccando immediatamente l’escalation. I primi tutori delle vittime sono loro stesse.