Il dovere della memoria (o meglio, in questo caso, del ricordo), ma anche quello di evitare i rischi “dell’oblio e del minimizzare”. È stato un invito chiaro quello del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E, insieme, un monito. Perché il rischio di essere inconsapevoli testimoni “distratti” dei nostri tempi nasce, spesso, dalla poca attenzione al passato più recente. In particolare quello che ha riguardato i territori immediatamente al di là del confine orientale italiano dove, all’indomani della Seconda guerra mondiale, il voler restare italiani divenne una colpa da punire con l’esilio forzato. Una pagina della Storia del Novecento rimasts nascosta troppo a lungo, nonostante migliaia di profughi giuliano-dalmati fossero stati riversati in massa sul territorio nazionale ristabilito dai trattati di pace successivi alla fine del conflitto.
Esuli e stranieri
Recise le radici, imbarcati su una nave (o addirittura su mezzi da strada) e spediti oltre (nuovo) confine, per dover poi attraversare un processo di integrazione che, per lungo tempo, li vide stranieri fra gli italiani stessi. Un inserimento lungo, reso complicato dalla totale privazione di beni e passato imposta dai titini, che costrinse gli abitanti di Fiume e degli altri territori di lingua italiana al di là dell’Adriatico a dover ricominciare con il peso dello status di profughi. Il tutto, nel silenzio assordante della Storia.
Quello che il Capo dello Stato ha chiamato “un muro di silenzio e di oblio, un misto di imbarazzo, di opportunismo politico e talvolta di grave superficialità” che “si formò intorno alle terribili sofferenze di migliaia di italiani, massacrati nelle foibe o inghiottiti nei campi di concentramento, sospinti in massa ad abbandonare le loro case, i loro averi, i loro ricordi, le loro speranze, le terre dove avevano vissuto, di fronte alla minaccia dell’imprigionamento se non dell’eliminazione fisica”.
Il prezzo della Storia
L’alba di una nuova dittatura, laddove il Secondo conflitto mondiale aveva da poco arginato l’onda troppo lunga degli estremismi occidentali. Con l’ulteriore discriminante di un’integrazione stentata, resa complicata dalle scorie di una guerra persa e dalla sensazione strisciante non tanto di essere ultimi fra gli ultimi ma addirittura invisibili alla società in ricostruzione. Il Presidente Mattarella ha ricordato anche questo: “Furono loro a pagare il prezzo più alto delle conseguenze seguite alla guerra sciaguratamente scatenata con le condizioni del Trattato di pace che ne derivò”.
Ma se l’inserimento nel logoro tessuto sociale italiano del dopoguerra ha richiesto tempo, il silenzio sui soprusi e le violenze, culminate con gli eccidi nelle foibe, sarebbe durato anche più a lungo. Alimentato, forse, dalla volontà di dimenticare la sconfitta (e le responsabilità) in guerra e quella di mantenere i delicati equilibri raggiunti con la vicina Jugoslavia, in un mondo già spezzato dalla logica dei blocchi. Tanto che, tolti sporadici episodi di commemorazione, bisognerà attendere il 2004 per l’istituzione di una giornata a tema. Quando delle fosse comuni, nelle gole carsiche, erano già state scoperte da tempo.
Il Giorno del Ricordo
L’obiettivo non era solo quello di garantire agli esuli e ai morti delle foibe un giorno utile per ricordarne le sofferenze. Ciò che serviva in quel momento, infatti, era la loro ricollocazione nella Storia. Col Nuovo millennio ormai iniziato da qualche anno e con la lenta marcia da Fiume (e non solo) ultimata, forse più per il corpo che per lo spirito, la legge n. 92 del 30 marzo 2004 arrivò a definire chiaramente l’impegno, da parte della Repubblica, a “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime”.
Una sorta di pietra d’angolo per la ricostruzione di un passato che, fin lì, era stata possibile solo attraverso le iniziative e le testimonianze delle comunità di esuli. “Ancora oggi – ricordava a Interris.it Giuseppe, ragazzo all’epoca dell’esilio – conservo il mio dialetto fiumano e partecipare alle giornate in cui ci raduniamo, assieme ad altri che subirono le mie stesse privazioni, mi piace perché ho l’occasione di parlarlo ancora”.
Il Museo
Un modo per tenere vivo il ricordo ma anche per creare una nuova generazione di testimoni. Ai quali demandare il compito di alimentare la coscienza civile e, al contempo, l’attenzione su pagine di storia troppo a lungo affrontate in modo marginale. Del resto, l’inserimento stesso del tema nei programmi scolastici, poggia ancora in buona parte su iniziative tematiche, incontri o convegni che siano. Del resto, la ricostruzione della memoria e la valorizzazione del contributo dei testimoni è ancora in atto.
Con un ulteriore aiuto che potrebbe arrivare dall’istituzione, ormai ufficiale, del Museo del Ricordo, con sede a Roma. Un’iniziativa del governo (con proposta avanzata della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano) per offrire alle nuove generazioni un polo culturale fatto di memoria viva. Un impegno concreto, da 8 milioni di euro in tre anni e 50 mila di gestione annua, per quello che il ministro ha definito “un dovere storico verso gli esuli istriani, fiumani e dalmata”. Un invito implicito, alle nuove generazioni, a contribuire alla memoria con il dovere dello studio, oltre che dell’ascolto.