Esattamente 80 anni fa, il 27 gennaio 1945, i soldati sovietici liberarono il complesso di Auschwitz, il più grande campo di sterminio nazista. Dinanzi a loro, l’orrore: migliaia di prigionieri scheletrici, testimoni sopravvissuti di un sistema di morte spietato, e i resti di milioni di vite spezzate. In occasione della Giornata della Memoria, Interris.it ha intervistato Dario Venegoni, presidente nazionale dell’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati nei Campi Nazisti). Figlio di Carlo Venegoni e Ada Buffulini, partigiani deportati nel Lager di Bolzano, Venegoni è impegnato da anni a tramandare il ricordo delle deportazioni, mantenendo vivo l’impegno contro ogni forma di intolleranza, razzismo e violenza. Nell’intervista con Interris.it, ha ripercorso le origini e la missione dell’ANED, il dramma dei deportati italiani e l’importanza di preservare la memoria, a ottant’anni dalla liberazione di Auschwitz. Un richiamo prezioso per comprendere come evitare che la storia si ripeta, riscoprendo il valore della libertà e della dignità umana.
L’intervista a Dario Venegoni di ANED
Come è nata ANED e qual è la sua missione?
“L’ANED, Associazione Nazionale Ex Deportati nei Campi Nazisti, è stata fondata nel settembre 1945 a Torino, presso un notaio, dall’incontro tra i superstiti dei campi di concentramento e i familiari di coloro che non erano tornati. Tra i deportati che sentivano di essere vicini alla morte, era comune chiedere agli amici sopravvissuti di informare e confortare le loro famiglie, raccontando cosa fosse accaduto. Da questa solidarietà è nata l’ANED, con l’obiettivo di mantenere vivo il ricordo della deportazione e delle sue vittime. Fin dall’inizio, l’associazione ha coinvolto non solo ex deportati, ma anche figli, vedove e familiari, creando una comunità intergenerazionale. Essa ha rappresentato una pluralità di idee politiche, condizioni sociali e orientamenti ideali, riflettendo la diversità dei deportati stessi: ebrei, cattolici, non credenti, ricchi, poveri, intellettuali e contadini. L’unità di ANED ha permesso di preservare il ricordo e di tramandare la memoria”.
Chi furono i deportati italiani e quali furono i numeri?
“I deportati italiani nei campi delle SS furono circa 40.000, di cui oltre 35.000 internati nei campi in Germania, Polonia e Austria, e il resto in campi italiani come Bolzano, Fossoli e la Risiera di San Sabba. Tra questi, 8.000 erano ebrei vittime della Shoah, mentre i restanti furono principalmente oppositori politici. Pochi i rom e sinti deportati (circa 80), e solo due i testimoni di Geova noti. Non risultano deportati italiani identificati come omosessuali, sebbene ci fossero persone omosessuali tra i deportati di altri Paesi”.
Quali furono i campi di sterminio?
“I campi principali furono Dachau (il più popolato da italiani), Auschwitz (con oltre 8.000 ebrei e circa 1.400 deportati politici, soprattutto donne) e Mauthausen (con circa 8.300 deportati italiani). I campi di sterminio più micidiali furono Auschwitz, dove la maggior parte dei prigionieri veniva uccisa subito dopo l’arrivo, e Mauthausen, dove la mortalità superava spesso la metà degli internati. In alcuni sotto-campi, come Gusen e Melk, le percentuali di vittime raggiungevano il 75-80%. Il castello di Hartheim, vicino a Mauthausen, fu un centro di sterminio dove tutti i 300 italiani deportati vennero uccisi”.
Come possiamo garantire che il ricordo delle deportazioni non venga dimenticato, a 80 anni dalla liberazione di Auschwitz?
“Non ce lo garantisce nessuno. Ogni anno che passa ci allontaniamo da quegli avvenimenti, e per un giovane di 15 o 20 anni, un intervallo di 80 anni appare enorme, interminabile. L’unico modo per mantenere vivo quel ricordo è superare il pietismo e la compassione per le vittime, cercando di comprendere come sia stata possibile una simile tragedia, perché è avvenuta, quali segnali l’hanno annunciata e cosa possiamo fare oggi per evitare di ripetere gli stessi errori. Dobbiamo riconoscere i segnali di imbarbarimento, intolleranza, razzismo e violenza contro i presunti nemici”.
In che modo l’ANED è impegnata in questo compito?
“Abbiamo ancora tra le nostre fila alcuni testimoni diretti, come la senatrice Liliana Segre, ma la maggior parte dei membri è composta da figli, nipoti e pronipoti di deportati, oltre a persone che hanno conosciuto le nostre storie e hanno deciso di unirsi a noi. Il nostro lavoro consiste nel raccontare le singole storie per mostrare che le vittime erano persone normalissime, travolte da un sistema organizzato, senza alcuna colpa personale. Cerchiamo di far capire come sia stato possibile che un Paese avanzato come la Germania – culla di musica, architettura, scienza – si trasformasse in una macchina di oppressione, e perché è accaduto. Sottolineiamo le ragioni profonde che legano tutte le categorie deportate: ebrei, oppositori politici, rom, omosessuali e testimoni di Geova erano considerati nemici del nazismo e del fascismo. Le leggi razziali italiane furono presentate da Mussolini come un mezzo per combattere chi si opponeva agli obiettivi del fascismo. La propaganda aggiunse stereotipi e caricature, in particolare sugli ebrei, ma la motivazione centrale era politica: eliminare chi non si allineava alla visione totalitaria”.
Quale lezione possiamo trarre oggi da quegli eventi secondo ANED?
“E’ necessario vigilare contro ogni segnale di intolleranza e razzismo. Pur senza paragonare direttamente il passato al presente, l’associazione denuncia il pericolo di discorsi e politiche che ricordano le ideologie fasciste e naziste. Richiamandosi al giuramento di Mauthausen, l’ANED sottolinea l’importanza di difendere la libertà, l’uguaglianza e l’idea di un’Europa unita. Diceva Primo Levi che quando sentiva una battuta razzista, lui vedeva sullo sfondo profilarsi i crematori di Auschwitz. A farne le spese sono sempre gli stessi, certo non i più ricchi del mondo, ma quelli che invece sperano di migliorare la propria situazione e di uscire da una situazione di fame, di costrizioni, di mancanza di libertà. Per tale motivo noi di ANED lavoriamo instancabilmente per mantenere viva la memoria: l’unica strada per sensibilizzare le persone sui pericoli che la democrazia potrebbe correre ancora oggi”.