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Genocidio degli uiguri: la Cina accerchiata dall’opinione pubblica

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Tra i genocidi della nostra epoca c’è quello, in Cina, perpetrato a danno della popolazione uigura affinché sia gradualmente ed etnicamente cancellata. Gli uiguri, popolo di origine turcofona e di religione islamica, sono stimati in circa 12 milioni in tutto il mondo. Il 94% di loro (poco più di 11 milioni) sono residenti nella regione autonoma dello Xinjiang, nel settore nord occidentale della Cina. Costituiscono dunque, una piccola minoranza (lo 0,8%) rispetto all’infinita popolazione cinese, quantificata in un miliardo e 400 milioni di individui e rappresentano una delle 56 etnie minoritarie del grande Paese orientale.

Tentativi falliti

I due tentativi di autodeterminazione e di autonomia della regione, sanciti negli anni 1934 e 1944 grazie anche alla benevolenza sovietica (convinta di creare un altro “Stato satellite”), sono risultati vani. La fermezza e la repressione del governo cinese (peraltro mai interessato alla presenza di culti religiosi, ne sanno qualcosa i cristiani che rappresentano il 2,5% della popolazione) nei loro confronti non si è mai attenuata, anzi, negli ultimi tempi, più voci, a livello mondiale, lamentano un inasprirsi delle azioni di razzismo e violenza.

Negli ultimi anni, infatti, la Cina ha realizzato dei campi di “trasformazione attraverso l’educazione”, giustificandoli con la necessità di evitare una radicalizzazione terroristica degli uiguri. Di questi campi si sapeva poco ma le notizie più accreditate e recenti riferiscono di atti di violenza e repressione. Oltre a limitare la libertà degli uiguri, tali campi appaiono vere prigioni e non luoghi di educazione.

Campi di rieducazione

In seguito al disegno di cancellazione dell’etnia (sterilizzazione di massa, aborti, torture) e della cultura uigura, si sono verificati, a partire dal XXI secolo, diversi atti di guerriglia fra le due parti in causa. L’aggiramento culturale intorno agli uiguri riveste ogni spazio e ogni aspetto, dall’imposizione linguistica ai culti religiosi, sino agli incentivi economici alle donne affinché non generino figli o perché si sposino con uomini di altre etnie.

Le rimostranze nei confronti di tale condotta sono state presentate dalle più note associazioni di difesa dei diritti umani (tra cui Human Rights Watch e Amnesty International) e dalle testate di carattere internazionale come The Guardian, Wall Street Journal e New York Times, Cnn. Il Council on Foreign Relations, istituto di ricerca statunitense (che coinvolge banchieri, Cia e politici Usa), offre una serie di dati, tra questi la conferma e la localizzazione di 27 campi di rieducazione stimandone, in totale, la presenza di circa 1200.

Violazioni

La Risoluzione del Parlamento europeo del 4 ottobre 2018, sulla “detenzione di massa arbitraria di uiguri e kazaki nella regione autonoma uigura dello Xinjiang”, esprime un elenco di violazioni perpetrate dal governo cinese seguite da una condanna ferma. La risoluzione, inviata alle massime autorità del Paese asiatico, fra i vari punti ricorda, senza mezzi termini, i principi del diritto: “Visti l’articolo 36 della Costituzione della Repubblica popolare cinese, che garantisce a tutti i cittadini il diritto alla libertà di confessione religiosa, e l’articolo 4, che difende i diritti delle nazionalità minoritarie”. Le posizioni dei vari Stati, a livello mondiale, non sono univoche e, di recente, si sono confrontate davanti all’Onu.

Wikipedia ricorda: “Nel luglio 2019, 22 Paesi hanno emesso una lettera congiunta alla 41ª sessione del Consiglio per i diritti umani delle nazioni Unite (UNHRC), condannando la detenzione di massa di uiguri e altre minoranze in Cina, chiedendo alla Cina di ‘astenersi dalla detenzione arbitraria e dalle restrizioni alla libertà di movimento di uiguri e altre comunità musulmane e minoritarie nello Xinjiang’. Nella stessa sessione, 50 Paesi hanno emesso una lettera congiunta a sostegno delle politiche cinesi dello Xinjiang, criticando la pratica di politicizzare le questioni relative ai diritti umani”. Pochi mesi più tardi la situazione internazionale appariva in una posizione similare, ancora di stallo.

Diritti umani

“Nell’ottobre 2019, 23 Paesi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta all’ONU esortando la Cina a sostenere i suoi obblighi e impegni nazionali e internazionali per il rispetto dei diritti umani. In risposta, 54 Paesi, tra cui dittature come la Corea del Nord, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta a sostegno delle politiche cinesi dello Xinjiang. La dichiarazione ha parlato positivamente dei risultati delle misure di antiterrorismo e deradicalizzazione nello Xinjiang e ha osservato che queste misure hanno effettivamente salvaguardato i diritti umani fondamentali delle persone di tutti i gruppi etnici”. L’Europa, gli Stati Uniti e l’India condannano le pratiche cinesi, la Russia è su posizioni opposte.

Difesa delle minoranze

Va riconosciuto come il richiamo all’osservanza delle libertà e dei diritti umani da parte della Cina sia all’ordine del giorno, attuale e condivisa da tutte le forze politiche italiane; lo dimostra il consenso unanime espresso a favore di una manifestazione indetta lo scorso 21 luglio, dinanzi al Parlamento, per difendere i diritti del Falun Dafa (disciplina di meditatori cinesi) e, di conseguenza, di tutte le minoranze a rischio di persecuzione da parte del Celeste impero. Nel mondo attuale non mancano i razzismi, le discriminazioni, le persecuzioni e, alcune volte, i genocidi nei confronti di minoranze o di popolazioni non allineate nei confronti del potere: fra questi i campi di concentramento per 100 mila oppositori in Corea del Nord e altrettanti Rohingya internati in Myanmar.

Etnie e contese

In Cina sono presenti ben 56 diverse etnie, la principale, quella Han, arriva a coprire quasi il 92% della popolazione. L’8% restante si distribuisce, essenzialmente, nei territori di confine, in 5 regioni che godono di autonomia e autogoverno, sebbene le promesse di agevolazioni, tutela e salvaguardia siano state sconfessate dai fatti, in uno squilibrato rapporto tra identità culturale e assimilazione. La regione dello Xinjiang è molto contesa e le violenze perpetrate fra le due parti opposte, poggiano su un sottosuolo ricchissimo di petrolio e gas. I leader uiguri hanno sempre condannato con fermezza il terrorismo, assumendo le distanze dagli atti violenti compiuti da frange isolate.

Anacronismo e retorica

La Cina si difende a livello mediatico e pratico, affermando di voler eliminare proprio l’eversione violenta presente nello Xinjiang. Una soluzione a tale pericolo, tuttavia, si rende possibile arginando i singoli e potenziali terroristi non investendo del problema tutta la popolazione uigura. La repressione violenta e l’internamento nei campi, ormai ampiamente documentati, non è altro che un motivo per scatenare ulteriore risentimento e odio fra le etnie. Si rischia di coltivare ancora di più la rabbia. Torna attuale l’antico insegnamento, giudicato invece anacronistico e retorico da chi ha interesse a soffiare sul fuoco, per il quale non si risponde all’odio con altrettanto odio.

Il problema degli uiguri

Il noto regista statunitense Orson Welles affermava: “L’odio razziale non fa parte della natura umana, anzi, è l’abbandono dell’umanità”. La Cina, con questo atteggiamento così deciso, ha finito, nonostante i tentativi di minimizzare e nascondere, con l’ottenere un effetto completamente contrario e di porre all’attenzione mediatica mondiale, il problema degli uiguri. Impossibile nascondere le nefandezze a carico della libertà e della dignità umana, dei più deboli: il rumore che rimbomba e fa da eco a tale aberrazione è più forte di qualsiasi illusione di silenzio imposta o ambita.

Marco Managò: