Fraschini Koffi: “Capire dove va l’Africa per capire la direzione del mondo”

Il giornalista e scrittore Matteo Fraschini Koffi è un "anello tra due mondi", l'Africa e l'Europa. Nato in Togo, cresciuto in Italia, ora è tornato nel "continente giovane" per raccontarlo e cambiare la narrativa. Interris.it lo ha intervistato in occasione della Giornata internazionale delle persone afrodiscendenti

Foto © Antonio Fortarezza (per gentile concessione di Matteo Fraschini Koffi)

Il 2024 segna la fine del Decennio internazionale per le persone di discendenza africana indetto dalle Nazioni unite per celebrare il contributo della diaspora africana e delle persone afrodiscendenti nel mondo e per promuovere la salvaguardia dei loro diritti contro ogni discriminazione. Se quando si parla di Africa ci si riferisce prevalentemente all’instabilità politica, alla povertà e ai flussi migratori, non bisogna dimenticare che c’è anche chi torna o addirittura va per la prima volta nel “continente giovane” – l’età media è 19 anni – e funge da “ponte” tra le due sponde del Mediterraneo, ma non solo.

La ricerca delle proprie radici e/o la possibilità di opportunità lavorative e di vita sono le molle per quegli afrodiscendenti che “tornano alle origini”, in alcuni casi dovendo anche mutare il proprio punto di vista sull’Africa, superando gli stereotipi che possono aver appreso nei Paesi dove sono nati o hanno abitato – senza per forza recidere il legame con quella che è stata la loro casa. Cambiando il loro sguardo, possono aiutare a cambiare anche quello del mondo.

Nel 2008, in una trasmissione televisiva italiana, il giornalista e scrittore Matteo Fraschini Koffi si è definito un “anello tra i due mondi”, l’Italia e l’Africa. Nato in Togo, adottato a dieci mesi da una famiglia milanese e cresciuto nel capoluogo lombardo, da vent’anni è tornato a vivere in Africa, da dove firma inchieste e articoli per diverse testate giornalistiche, tra cui Avvenire, e scrive libri. In occasione della Giornata internazionale delle persone afrodiscendenti, Interris.it lo ha intervistato sulla sua storia, sul ruolo unificatore degli afrodiscendenti e sul futuro (ma anche il presente) del continente africano.

L’intervista

Com’era la tua vita da afrodiscendente in Italia e cosa ha fatto scoccare la scintilla dell’interesse per l’Africa?

“’Non si può vivere senza passato’, cantavano Andrea Bocelli e Gerardina Trovato, e per certi versi avevano ragione. Sono nato in un ospedale di Lomé, Togo, senza conoscere la mia famiglia naturale. Qualcuno, non so chi, mi ha portato in orfanotrofio diciannove giorni dopo e a dieci mesi mi sono ritrovato in Italia, adottato da una coppia di giovani volontari milanesi. Il mio primo compagno di scuola di origine africana l’ho incontrato al liceo. Fino a quel momento avrei voluto essere bianco, in quel periodo è iniziato lo scontro con la società, ad ogni colpo che prendevo si rafforzava il sentimento di dover tornare alle origini. La scintilla, anche se provi ad ignorarla, è ancorata nel profondo della tua anima fin dalla nascita. Ognuno poi decide la direzione e la tempistica per trasformarla in fuoco e luce”.

Nel 2023 l’associazione di promozione sociale Lunaria ha resocontato 435 episodi di razzismo. Da un’indagine di Ipsos per Amref Italia emergono due dati, il primo è che per sette italiani su dieci le persone di nazionalità africana sono vittime di razzismo, mentre il secondo solo un italiano su dieci ha la corretta percezione della loro presenza in Italia – cioè quante ce ne siano in numeri assoluti e in rapporto alla popolazione. Hai subito episodi di razzismo? C’è un problema di razzismo sistemico in Italia?

“Dopo l’ultimo che ho reso pubblico qualche mese fa su Avvenire (la polizia lo ha fermato mentre rincasava, di notte, a Milano, ndr), ho deciso di adottare il termine ‘confusione’, e in Italia ce n’è molta. Per natura diffido delle statistiche: in un giorno mi possono capitare una decina di episodi di ‘confusione’ e la maggior parte non riesci a prevenirla. ‘Stai tornando a casa dal supermercato?’, mi aveva chiesto dal nulla una signora arrabbiata sul tram a Milano. Le ho risposto gentilmente di no. Nero, alto e grosso, ai suoi occhi non potevo che essere la guardia di sicurezza di un supermercato. La ‘confusione’ è sistemica e ne parlo nei miei libri”.

Cosa ti ha convinto a tornare in Africa e com’è stato adattarsi e integrarsi?

“L’ho sempre vista come una maratona più che una corsa veloce. Sapevo che sarei tornato in Africa, ma prima mi sono preparato girando per altri Paesi. Punto all’integrazione nella vita di ogni persona che mi ispira, non tanto nella società in generale. Il mio sguardo si è ribaltato fin dal primo giorno che ho messo piede in aeroporto a Lomé, nel 2005: pensavo di trovare un Paese in costante crisi e invece erano tutti in festa per una partita di calcio. Quel primo ‘choc’ ha disintegrato qualsiasi opinione mi ero fatto dell’Africa in Italia”.

Nel corso della tua carriera giornalistica avrai incontrate diverse persone afrodiscendenti con le loro storie particolari. Ce ne vuoi citare qualcuna?

“Mi piace incontrare in Africa gli ‘afrodiscedenti’ italiani: Pietro Tesfamariam, che lavora alla Commissione europea, Silvia Rosi, una fotografa, Adama Sanneh, CEO di Fondazione Moleskine, Deguene Mbow, dell’associazione Janghi, e molti altri. Gli afrodiscendenti italiani hanno sia un grande potenziale sia la grande responsabilità di cambiare la disastrosa narrativa italiana sull’Africa”.

Dopo secoli di diaspora e il fenomeno strutturale dei flussi migratori, cosa porta in Africa sia afrodiscendenti che non?

“Ognuno ha le sue ragioni, la mia è legata alla Natura e a come viene vissuta da queste parti. Subito dopo c’è appunto la voglia di cambiare la narrativa sull’Africa il prima possibile”.

L’Occidente deve ancora capire e raccontare l’Africa come realmente è? Nel frattempo, continua a esportare il proprio modello di sviluppo o ha compreso come collaborare alla sua crescita?

“L’unico modo costruttivo per intervenire in Africa è proporre progetti legati a istruzione e cultura. Tutto il resto non funziona. Per capire e raccontare il continente africano, invece, bisogna iniziare a inserirlo seriamente nelle scuole italiane, tra i più giovani. Io sono cresciuto senza aver imparato niente sulla storia africana e da vent’anni sto cercando di riparare a questa grossa mancanza”.

Si dice che l’Africa sia il continente del futuro. Tu sei un osservatore delle trasformazioni dell’economia africana, dove sta andando l’Africa?

“Dove sta andando il mondo, mi viene da pensare. E se non si capisce cosa stia succedendo in Africa – tra coreani, giapponesi, cinesi, indiani, russi e iraniani, sempre più numerosi qui-, tra risorse umane e naturali, la direzione del mondo ci sorprenderà in negativo”.

Hai scritto due libri sulla tua storia, uno sulla ricerca delle radici e un altro sulla tua condizione di “diverso” sia in Italia che in Africa. Che rapporto hai oggi con la tua identità?

“È solo mia, sarebbe troppo complicato spiegarlo in qualche riga. Ma per fare un esempio: devo pagare un visto per vivere nel Paese in cui sono nato”.

In che rapporti sei con la tua famiglia adottiva?

“Per ovvie ragioni non hanno ancora capito cosa sto costruendo, ma presto se ne accorgeranno: ho diversi progetti in cantiere”.

Quali?

“Un podcast, ‘L’Africa ai lati’, e un film sul mio ultimo libro ‘Oggi non muoio’, dove anche lì si affronta il tema degli ‘afrodiscendenti’. Dopo la mia avventura con il programma televisivo ‘Le Iene’ sto abbandonando un certo tipo di giornalismo, per spostarmi verso il cinema”.