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Face tattoo: una moda pericolosa

Foto di Felix da Pixabay

Face tattoo” è la nuova moda, ormai universale, dei tatuaggi effettuati sul viso, mutuata dai cantanti rapper e trapper tanto amati dai giovanissimi; si sfoggiano come una forma di sfida e di protesta verso la società. Alcuni di questi tatuati si pongono in una continua competizione personale: essere costretti, per l’aspetto che si conferiscono, a cercare opportunità lavorative non facili né impiegatizie ma relegate alle nicchie concesse. Per i giovanissimi, gli esempi provengono dal mondo dei VIP del cinema, della musica e anche del calcio. Tra i campioni del pallone, infatti, spopola la tendenza a ricoprirsi di simboli, lettere e numeri. Pochissimi sono i calciatori che si sottraggono a tale moda, tra questi il campione portoghese Cristiano Ronaldo che, a domanda specifica sulla sua presa di posizione, ha sostenuto che, tatuandosi, non potrebbe donare il sangue. A livello normativo, infatti, va ricordato come si debbano attendere 4 mesi dalla data del tatuaggio prima di poter effettuare donazioni. Il disegno facciale non preclude il riconoscimento dell’individuo nel caso di controllo da parte delle Forze dell’ordine. Per queste ultime vi è il divieto di tatuarsi il viso ma la legge non lo vieta per le altre professioni.

Alcune donne delle tribù del Myanmar e dell’Indonesia, legate all’obbligo, antichissimo, del tatuaggio facciale, non sono riuscite a tramandare tale tradizione ai loro figli che, anzi, prendono nettamente le distanze. Il paradosso è il seguente: nelle popolazioni che hanno inventato il face tattoo, si tende a perderlo e rifuggirlo; nel mondo occidentale, invece, gli “esempi” dei VIP aumentano le richieste emulative. Nella Lettera Enciclica “Laudato si’”, Papa Francesco afferma “Il nostro corpo ci pone in una relazione diretta con l’ambiente e con gli altri esseri viventi. L’accettazione del proprio corpo come dono di Dio è necessaria per accogliere e accettare il mondo intero come dono del Padre e casa comune; invece una logica di dominio sul proprio corpo si trasforma in una logica a volte sottile di dominio sul creato”.

Per chi volesse documentarsi sulla storia del tatuaggio e di come abbia avuto presa nei tempi attuali, vi è il libro, dal titolo emblematico “Marchiati” (sottotitolo “Breve storia del tatuaggio in Italia”), pubblicato da “Momo Edizioni” nel febbraio 2021, realizzato da Cecilia De Laurentis, ricercatrice free-lance che “indaga gli incontri/scontri del tatuaggio con l’arte accademica”.

L’associazione scientifica “Intergruppo Melanoma Italiano (IMI)”, ha pubblicato, nel 2021 dei dati (visibili al link https://www.melanomaimi.it/stampa/i-nostri-comunicati-stampa/968-cs-7-milioni-di-tatuati-in-italia,-ma-il-25-si-pente.html) da valutare con molta attenzione, Fra i numeri, si legge Il 20% della popolazione europea ha un tatuaggio, significa che oltre 60 milioni di persone si sono sottoposte a questa pratica di body art. Numeri che sono in continua crescita. ‘Di questi – dichiara Ignazio Stanganelli, presidente dell’Intergruppo Melanoma Italiano – IMI […] 7 milioni sono italiani, le donne sono un po’ più degli uomini, ma non sappiamo quanti sono quelli che hanno tatuaggi estesi su ampie aree corporee che sono quelli che più facilmente possono nascondere un neo sospetto’. L’età media del primo tatuaggio, secondo una recente indagine dell’Istituto Superiore di Sanità, è circa 25 anni anche se il numero maggiore di tatuati rientra nella fascia d’età tra i 35 e i 44 anni (23,9%). Chi si tatua lo fa per ragioni principalmente estetiche (96,5%) contro lo 0,5% che lo ha fatto con finalità mediche e il 3% come trucco permanente. Il 12,8% della popolazione del nostro Paese è tatuata, percentuale che sale al 13,2% se si considerano anche gli ex-tatuati. ‘Una persona su quattro si pente – afferma Giuseppe Scarcella, responsabile nazionale del dipartimento Laser & Hight tech ISPLAD – e si rivolge ai dermatologi per farsi togliere il tattoo’. […] Il 7,7% di chi si è sottoposta a questa pratica è un minore di età compresa tra i 12 e i 18 anni. ‘Un dato preoccupante – continua Scarcella – visto che i tatuaggi su un minorenne si possono eseguire solo dai 16 anni in poi’”.

In questo senso, come catalizzatore, si pone il mondo del web e dei social che spinge a provare e, poi, ad aumentare la percentuale di pelle ricoperta d’inchiostro. La Rete offre un’infinità di scelte e consigli, con delle minuziose informazioni sui significati delle numerose immagini. Nei social si approfondiscono e commentano i “preziosi” contenuti dei tatuaggi delle celebrità. Si aspira a emularli. L’espressione da “duro”, di sicuro impatto sui social e sui giovani virgulti, si concretizzerebbe attraverso un viso reso sfrontato dal coraggio di esibirlo così vistoso, incurante del giudizio del prossimo.

Il face tattoo, secondo i tatuatori più sensibili, rappresenta l’upgrade di chi ha iniziato con i primi disegni sul corpo e, “maturata” una certa “consapevolezza”, offre il volto (per poi pentirsene in molti casi). I lavoratori del settore preferiscono che l’“iniziazione” non parta dal viso. Peraltro, il tattoo sul viso è più doloroso rispetto ad altre parti del corpo e, a detta dei dermatologi, anche più difficile (se non impossibile) da rimuovere. I disegni e le scritte stampate per sempre sulla pelle contengono, spesso, contenuti offensivi, volgari, provocatori, sessisti, di sfida e di carattere blasfemo: di certo, senza trascendere nella retorica, non sono educativi per i giovanissimi che li guardano, li studiano e li commentano. In molti casi, chi si tatua non è consapevole di aver violato i precetti cristiani. Deve essere chiaro, inoltre, che raffigurarsi e ostentare delle immagini sacre non ha senso né “riabilita”. Il tatuaggio è un marchio, un’affiliazione ad antiche pratiche pagane.

L’affermazione della propria personalità non avviene tramite il disegno di un fiore o di un oggetto sul viso, non si compra facilmente con un gesto dalla durata perenne ma si conquista attraverso una continua e quotidiana costruzione del sé, nel dialogo, nei gesti e nelle relazioni con l’altro. L’etichetta apposta sul viso non certifica il possesso o il perseguimento di inviolabili valori, questi sono doni e grazie da costruire e il loro arrivo non è scontato.

Ci si illude di essere liberi e senza ostacoli o barriere, in realtà ci si marchia in una banale omologazione, di autoemarginazione, creando, volontariamente, una riserva sterile. Se la critica al “sistema” si dovesse tradurre attraverso queste immagini facciali, qualche dubbio è lecito. Il disagio delle periferie, altro tema caro ai rapper, si esprime con il dialogo, con il canto, con gesti di volontariato, con la condanna di violenza e degrado, con il rifiuto di assumere stupefacenti e, così, rimanere liberi. Alcuni rapper affermano come coprirsi il viso di disegni e lettere sia un modo, chiaro e inequivocabile, per far capire quanto siano indifferenti al giudizio degli altri e come, in sostanza, non gli interessi nulla della gente. Nel fare ciò che si vuole, realizzando ogni capriccio personale, si abbina, quindi, un’indifferenza che si sposta al grado più elevato. La musica e la mentalità trap, in particolare, concentrano, la loro ribellione in una sorta di accettazione pragmatica del disagio e non prevedono la possibilità di uscita e di una vita diversa. Non vi sono speranza e fede ma rassegnazione: una visione pessimistica e individualistica dell’esistenza, in cui la cattiva condotta è giustificata, ininfluente per un’impossibile salvezza della persona.

Il relativismo contemporaneo (tutto è a tempo determinato, anche l’amore) si scontra, paradossalmente, con l’infinito del tatuaggio. Tutto finisce tranne il tatuaggio? Una contraddizione difficile da comprendere. L’unico “valore” a tempo indeterminato è avere un disegno al collo, sulla fronte o sulle guance?

Più che l’impegno e lo studio, di lunga durata e frutto di sacrifici, si punta a ottenere un effetto, materiale, a breve termine, senza fatica: “pago e ottengo, ciò che voglio, sono libero se e perché mi esprimo attraverso simboli e disegni. L’altro? Non mi interessa, basta che, adesso, sia felice io”.

Marco Managò: