Ci sono voluti solo 10 anni per dare una nuova speranza al malati di un tumore del sangue, la leucemia a cellule capellute. Precisamente, dieci anni per passare dall’identificazione della lesione genetica responsabile della malattia alla messa a punto di una strategia terapeutica particolarmente efficace basata sulla combinazione di due farmaci a bersaglio molecolare non chemioterapici. Risultati così positivi da far sperare un giorno di arrivare ad una guarigione completa del paziente leucemico, forse senza l’uso della chemioterapia.
Fautori di questo grande (e rapido) risultato medico sono stati Enrico Tiacci, Brunangelo Falini e il loro gruppo di ricerca all’Istituto di Ematologia e Trapianto di Midollo Osseo (istituto diretto dallo stesso Falini), presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università e dell’Ospedale di Perugia.
Il gruppo di Tiacci e Falini lavora da anni con il sostegno del Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) e dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), e ha pubblicato più volte i risultati dei propri studi sul New England Journal of Medicine, la rivista scientifica con il più alto impatto di tutte.
Per poter spiegare anche ai neofiti l’intuizione che ha portato a tali risultati, Interris.it ha intervistato l’ematologo Enrico Tiacci, colui che in questi anni, con passione e dedizione, ha reso possibile questo importantissimo risultato medico contro una malattia pericolosa come la leucemia.
Tiacci, che è professore di ematologia, ci racconta questa storia dal CREO, il Centro di Ricerche Emato-Oncologiche, inaugurato nel 2015 nell’area dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia. Una struttura innovativa, dedicata alla medicina di precisione, dove le scoperte di base vengono prontamente tradotte in clinica.
L’intervista all’ematologo Enrico Tiacci
Professor Tiacci, avete fatto un’importante scoperta relativamente a questa leucemia. Come spiegarla in parole semplici e accessibili a tutti?
“Nel 2011 abbiamo scoperto la causa della leucemia a cellule capellute. Di leucemie ce ne sono di moltissimi tipi; quella in questione, detta anche ‘tricoleucemia’, prende il nome dalle estroflessioni simili a capelli che fuoriescono dalla superficie delle cellule cancerose. Queste estroflessioni sono una peculiarità di tale leucemia rispetto a tutte le altre, e forse aiutano le cellule a sopravvivere meglio stabilendo più contatti con il microambiente circostante”.
A cosa è dovuta quindi la tricoleucemia?
“E’ dovuta alla trasformazione tumorale dei linfociti B maturi (cioè delle cellule che producono gli anticorpi). Queste cellule ‘impazzite’ invadono tutto il midollo osseo a spese delle normali cellule del sistema immunitario e possono quindi causare nel paziente infezioni a volte mortali. E’ una leucemia relativamente rara, con circa 1.400 nuovi casi l’anno in Europa. Ma siccome è cronica e difficilmente eradicabile con la chemioterapia, i malati si accumulano col tempo e raggiungono qualche decina di migliaia”.
Cosa avete scoperto solo 10 anni fa, nel 2011?
“Abbiamo scoperto che a causare la leucemia a cellule capellute era la mutazione di un unico gene, BRAF. Ci trovavamo, quindi, di fronte a una malattia geneticamente molto semplice, causata dalla mutazione di un singolo gene (nel genoma umano ce ne sono circa 25mila!). Dai nostri studi è emerso che quasi il 100 per cento dei pazienti con tricoleucemia mostrava appunto una particolare mutazione di BRAF, la cosiddetta V600E. Questa porta all’attivazione di una importante via di segnalazione intracellulare che spinge le cellule a diventare immortali e quindi ad accumularsi incontrollatamente”.
Come avete operato dopo questa scoperta?
“Abbiamo usato un nuovo farmaco, il vemurafenib, ‘disegnato’ appositamente per bloccare BRAF, in modo da vedere cosa succedeva alle cellule leucemiche. All’inizio, in laboratorio, abbiamo osservato che le cellule malate perdevano i capelli e poi morivano. In parallelo, abbiamo iniziato un primo studio clinico in pazienti affetti da questa leucemia e che avevano smesso di rispondere alla terapia standard, che è la chemioterapia (endovena o sottocute)”.
Qual è la differenza maggiore tra il vemurafenib e la chemioterapia?
“La chemioterapia uccide indistintamente tutte le cellule del midollo osseo, sia quelle tumorali che quelle normali provocando come effetto collaterale un’immunosoppressione spesso pericolosa. Noi invece abbiamo somministrato a questi pazienti appunto il vemurafenib, che si prende semplicemente per bocca e che invece risparmia le cellule normali del midollo osseo in quanto non hanno la mutazione di BRAF”.
Che risultati ha dato il nuovo farmaco, il vemurafenib?
“Ottimi, più del 90% di risposte in pazienti che al contrario non rispondevano più alla chemioterapia! Il tutto senza la tossicità della chemioterapia (seppure non sempre senza altri effetti collaterali – peraltro meno preoccupanti)”.
Come è avanzata la ricerca dopo il 2015?
“Nel 2015 avevamo osservato che circa il 95 per cento dei pazienti rispondeva bene alla nuova terapia, ma la risposta era completa solo in un terzo circa di casi, per cui la leucemia si ripresentava dopo vari mesi o qualche anno dalla sospensione del farmaco. Questo perché alla fine della terapia rimaneva comunque un residuo di leucemia nel midollo osseo, che con il tempo si riespandeva e alla fine causava la recidiva”.
Come avete risolto il problema della resistenza al vemurafenib?
“In un successivo studio clinico pubblicato lo scorso Maggio sul New England Journal of Medicine, abbiamo aggiunto al vemurafenib un altro farmaco non chemioterapico, il rituximab, un anticorpo monoclonale ben noto in clinica. L’anticorpo si lega alla cellula malata dall’esterno e la fa riconoscere dal sistema immunitario del paziente: in questo modo, sono i globuli bianchi stessi che la eliminano. Da qui l’idea di testare la combinazione del rituximab con il vemurafenib (che invece colpisce la cellula al suo interno) in uno studio che ha coinvolto 30 pazienti con leucemia a cellule capellute recidivata o refrattaria alla chemioterapia”.
Che risultati avete ottenuto?
“I risultati sono molto incoraggianti, con un aumento molto significativo della percentuale di remissioni complete. Siamo passati da circa il 35 per cento per i pazienti trattati con il solo vemurafenib a quasi il 90 per cento per quelli trattati con entrambi i farmaci”.
Queste persone sono dunque guarite dalla tricoleucemia?
“Non possiamo garantire che questi pazienti siano definitivamente guariti, perché per esserne sicuri bisogna aspettare molti anni; ma è evidente che il trattamento combinato sia più efficace di quello con il solo vemurafenib. Inoltre, il fatto che in molti di questi pazienti non siamo riusciti a trovare traccia nel midollo osseo di malattia minima residua, neanche usando tecniche diagnostiche molto sensibili, fa ben sperare nella possibilità di una remissione molto duratura”.
E se in futuro uno dei pazienti recidivasse?
“Anche se i pazienti recidivassero, avrebbero comunque nel frattempo beneficiato di diversi anni di remissione dalla malattia. Di tempo in più da vivere bene, in sostanza. Tempo che i pazienti che non rispondono più alla chemioterapia altrimenti non avrebbero. Infatti, oltre alla guarigione completa, un obiettivo primario della ricerca medica è di prolungare la vita e di migliorarne la qualità”.
In che modo ha impattato questa terapia durante il coronavirus?
“Molto positivamente: avere un farmaco contro la tricoleucemia efficace come il vemurafenib senza essere immunosoppressivo è stato di grande aiuto in questo periodo segnato dalla pandemia di Covid-19. Infatti, i malati di leucemia hanno un sistema immunitario compromesso, rispondono meno bene alla vaccinazione e rischiano di morire di Covid19 di più rispetto alle persone sane. Avere a disposizione questa efficace alternativa alla chemioterapia, è utile in generale e, in particolare, lo è stata ancor più nel contesto pandemico”.
Con questa nuova cura sarà possibile in futuro evitare del tutto la chemioterapia?
“Forse sì, ma ci vorrà un po’ di tempo per dimostrarlo. I risultati di questo trattamento (vemurafenib + rituximab) in pazienti recidivati o refrattri sono talmente incoraggianti che noi stiamo proprio disegnando un nuovo studio clinico per cercare di anticipare questo trattamento alla ‘prima linea’, vale a dire appena la tricoleucemia viene diagnosticata, in paragone diretto con la chemioterapia standard”.