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Don Oreste e Zambia: l’intuizione del sacerdote di “esportare” la casa famiglia

“Nella mia diocesi ci sono tanti bambini che non sono amati da nessuno, servirebbe proprio una casa come questa”. Con queste parole Mons. Denis De Jong, un vescovo dello Zambia, si rivolse a don Oreste Benzi dopo aver visitato una casa famiglia a Rimini. Era il 1983. Due anni dopo la Comunità Papa Giovanni XXIII apriva la sua prima missione all’estero, in Zambia, per esportare quell’incredibile intuizione di don Benzi di dare una famiglia a chi non ce l’ha”. Nacque così la prima casa famiglia in Africa, nella città di Ndola, nel nord-ovest dello Zambia.

La rivoluzione sociale della casa famiglia

In Italia la prima casa famiglia aperta da don Benzi era stata una rivoluzione sociale: non si erano mai viste persone che aprissero le porte di casa – casa propria, non una struttura – a chiunque avesse bisogno. In Africa la novità portata dal sacerdote dalla tonaca lisa si era innestata invece in una caratteristica della società: l’extended family. Questo concetto è ben spiegato da Nelson Mandela nel suo libro “La lunga strada verso la libertà” dove scrive: «Mia mamma presidiava tre capanne che erano sempre piene di neonati e bambini, tutti miei parenti. Infatti difficilmente ho ricordi della mia infanzia in cui fossi solo. Nella cultura africana i figli degli zii sono considerati fratelli e sorelle, non cugini».

L’extended family

L’extended family africana per secoli è stata una forma di solidarietà e protezione sociale efficacissima. Tuttavia negli ultimi decenni è stata stritolata sia da forme estreme di povertà sia dalla pandemia dell’AIDS. Oggi il 64% degli zambiani vive con meno di due dollari al giorno. Ragion per cui, nonostante la crescita economica, lo Zambia rimane uno dei paesi più poveri del mondo. Nell’ultimo decennio il paese ha fatto enormi miglioramenti per contrastare l’AIDS e la malaria. Ciononostante in Zambia risultano positivi al virus HIV l’11% della popolazione adulta ed il 15% dei bambini. Questi fattori, oltre a rappresentare una tragedia, hanno portato all’esplosione della struttura sociale dell’extended family. Una sola nonna, cui sono morti le figlie, non riesce più a portare il peso dell’intera grande famiglia. La povertà genera altra povertà. Anche per queste ragioni oggi in Zambia circa 14mila ragazzi vivono sulla strada. Sono gli “street children”, a volte bambini. La maggior parte sono orfani, poveri e con bassissima scolarizzazione. Vivono di lavoretti saltuari, mendicando e sniffando colla come droga. Nella strada sono esposti a violenze e abusi.

La Comunità di don Oreste Benzi in Zambia

Il Presidente Sergio Mattarella, nel suo discorso durante la visita in Zambia ha dichiarato: «La valorizzazione della gioventù africana passa attraverso un’attenzione prioritaria all’istruzione e alla rimozione di tutte quelle cause – economiche, sociali, culturali – che impediscono a tanti adolescenti, soprattutto giovani donne, di completare la propria formazione».

E’ quello che cercano di fare tante realtà, enti religiosi e ONG, che ogni giorno portano avanti progetti di giustizia e solidarietà sociale. Come la Comunità Papa Giovanni XXIII. Oggi in Zambia la Comunità di don Benzi gestisce una casa famiglia, tre famiglie aperte all’accoglienza, 13 centri per bambini malnutriti, otto centri nutrizionali per anziani, due mense scolastiche, sette community school, una struttura di prima accoglienza e tre centri per ragazzi di strada, due scuole speciali ed un corso professionale per i disabili, da quando sono bambini fino all’inserimento nel mondo del lavoro, un centro diurno sempre per persone disabili. Ogni giorno raggiunge circa 5mila persone.

I progetti

Da segnalare in particolare il progetto Rainbow, un “modello di cura” che ha l’obiettivo di aiutare il maggior numero di orfani dell’Aids e bambini vulnerabili lasciandoli nella loro famiglia estesa. Vi è poi il Cicetekelo Youth Project che accoglie 300 bambini di strada offrendo non solo alloggio e cibo, ma anche istruzione, formazione lavorativa ed un accompagnamento, con amore, nel loro percorso di crescita fino al reinserimento nella comunità.

Infine vi sono le gelaterie Gigibontà, ad oggi dieci in tutto il Paese, dove si può gustare un ottimo gelato italiano e nelle quali lavorano 189 persone. Quello di Gigibontà non è solo un prodotto solidale, ma punta anche all’eccellenza grazie alle materie prime utilizzate per ottenere un gelato di ottima qualità consigliato da numerosi siti. In tutte le gelaterie lavorano persone salvate dalla povertà. Come Simon: “A 12 anni sono andato a vivere sulla strada, ero orfano. Ogni giorno speravo che qualcuno mi tendesse una mano. Poi sono stato accolto dalla Comunità Papa Giovanni. Ora, a 36 anni, sono sposato e quando penso al futuro dei miei figli so che c’è una speranza.

Luca Luccitelli: