Un pastificio artigianale all’interno del carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma. È questo il progetto che sarà inaugurato il prossimo 10 novembre in via Giuseppe Barellai 140: un laboratorio artigianale sito all’interno del complesso del carcere minorile di Casal del Marmo, ma con entrata autonoma, che avrà come nome “Pastificio Futuro”.
La realizzazione è stata resa possibile dalla Gustolibero Società Cooperativa Sociale Onlus, con il sostegno della Conferenza episcopale italiana e di Caritas Italiana e in sinergia con la Direzione dell’Istituto Penale Minorile Casal del Marmo, il Centro della Giustizia Minorile Lazio-Abruzzo-Molise, il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, le diocesi di Roma e di Porto – Santa Rufina.
Interris.it ha intervistato don Nicolò Ceccolini, cappellano di Casal del Marmo, per approfondire le tematiche e le motivazioni del progetto rivolto ai minori reclusi per ridare loro un futuro.
L’intervista a don Ceccolini
Il pastificio è stato chiamato “futuro”, perché questo nome?
“Perché l’impegno che si cerca di vivere insieme ai ragazzi è quello di offrire loro delle possibilità concrete. Non solo durante il periodo di detenzione ma anche dopo, affinché possa esserci una finestra spalancata verso il domani. La parola ‘futuro’ è piena di speranza e per noi era la parola che concretizzava al meglio l’invito del Papa, ‘Non lasciatevi rubare la speranza’, fatto durante la sua prima visita qui a Casal del Marmo nel 2013. Il pastificio è stato fortemente voluto da padre Gaetano Greco, che è stato il mio predecessore per tanti anni nel carcere ed era il cappellano durante la visita de Papa, che è poi tornato una seconda volta, lo scorso 6 aprile, a 10 anni dalla prima visita”.
Come spiega l’attenzione di Papa Francesco verso i ragazzi in carcere?
“Secondo me il Papa vuole evidenziare con le sue visite come, anche dai luoghi di sofferenza, si possa sempre imparare qualcosa di bello se ci si mete in ascolto e si cammina a fianco delle persone ferite, in particolare a fianco dei ragazzi. E che ognuno di loro porta dentro di sé un positivo che neanche il male più efferato potrà mai cancellare. La sua presenza è un segno di fiducia in questi ragazzi: nei talenti e nei doni che ognuno di loro porta dentro di sé. La sua attenzione è un incoraggiamento non solo per i ragazzi, ma anche per noi che viviamo quotidianamente accanto a loro per accompagnarli in questo lungo percorso”.
E’ previsto nel pastificio l’impiego di ragazzi che sono ancora in carcere?
“Sì, La volontà è proprio quella di offrire un’opportunità lavorativa ai ragazzi detenuti all’interno dell’Istituto Penale. In questi anni – in particolare dal 2014, da quando c’è stata una riforma legislativa che ha portato l’età massima dei ragazzi detenuti da 21 a 25 anni – si è cercato di dare spazio alla formazione, ai corsi professionalizzanti e in ultimo questo progetto del pastificio che va proprio nella direzione di riempire di significato il tempo della detenzione. Abbiamo aperto anche ad altri ragazzi che sono stati detenuti a Casal del Marmo che però al momento stanno scontando la loro pena all’esterno, chi a casa propria, chi in comunità, e torna qui quotidianamente a lavorare”.
Perché avete scelto di produrre pasta?
“La pasta è stata scelta per ritornare agli elementi essenziali della vita e della cultura italiana. Ci sembrava la cosa che più richiamasse un ritorno alle proprie radici perché alla fine ognuno di noi cresce bene se le radici sono ben nutrite e ben fondate nel terreno. Quindi, la parte più importante di un albero sono le radici. Inoltre, la pasta è l’elemento più comune che abbiamo sono le nostre tavole”.
Cosa significa svolgere il servizio di cappellano all’interno di un carcere minorile? Quali sono le difficoltà ma anche la bellezza di questo servizio?
“Per me quella del cappellano è una missione affascinante perché è motivo di crescita come uomo e come prete: se oggi sono l’uomo e il prete che sono è perché sono cresciuto con questi ragazzi. Ho cominciato a Casale del Marmo che avevo 23 anni quindi ero quasi coetaneo dei ragazzi più grandi. Quotidianamente, vivere in carcere significa trovarsi dentro un mare di bisogni, dai più materiali a quelli più profondi ed esistenziali. A volte la strada del bisogno è la via di incontro privilegiata perché ti permette di partire da una richiesta di qualcosa per arrivare a poi condividere le cose più importanti della vita. Vivere questo significa non guardare molto l’orologio; infatti io non ho l’orologio con me quando vado al carcere! Ciò significa che quel tempo che io ho è per quel ragazzo lì che sto incontrando. Inoltre, io sono lì per tutti, a prescindere che siano cristiani, cattolici o musulmani: per noi i ragazzi sono tutti uguali, quindi ognuno di loro merita grande attenzione, ascolto e disponibilità a fare un cammino insieme”.
Qual è la fatica principale?
“La fatica principale è che uno deve andare all’essenziale, deve spogliarsi di tante costruzioni mentali o di parole, togliere le maschere per dare spazio alla potenza dell’incontro che può avvenire tra due persone, dentro comunque un posto di privazione, dove veramente i ragazzi non hanno niente rispetto alla loro vita di prima. Ad esempio, non c’è il cellulare né le altre distrazioni che avevano all’esterno. Con loro vivo momenti essenziali che racchiudono tutta la bellezza di due umanità che si incontrano”.
Come si porta l’annuncio del Vangelo in una realtà così eterogenea e multireligiosa?
“Innanzitutto, con il semplice fatto di esserci: questa è la prima forma di testimonianza. Tante volte mi viene chiesto ‘ma tu cosa fai in carcere’? Mi sento sempre in difficoltà a rispondere a questa domanda, perché uno più che fare ‘sta’: questa secondo me è la prima forma di testimonianza. E poi ci sono i momenti di dialogo: sanno che io sono lì a loro disposizione e possono scegliere di venire a parlare senza avere l’obbligo rispetto al colloquio con l’educatore, o lo psicologo. Insieme si cerca di fare un cammino. Mostro interesse per la loro vita, per la loro storia, per il momento che stanno attraversando. Con alcuni poi scatta quel di più e alcuni ragazzi chiedono anche di imparare a pregare, partecipare alla messa, incontrarsi con il Signore. Però mi verrebbe da dire che nello stare con loro il profumo del Signore si respira sempre, cioè si sta in un clima molto familiare. Alla messa domenicale partecipa chi vuole e quasi tutte le domeniche partecipano anche i ragazzi musulmani. La messa è un momento per tutti per alzare lo sguardo verso il cielo. Sperando in un futuro migliore”.