Un bagaglio importante quello che Agnese Buonomo ha costruito in una carriera che l’ha portata al cuore dell’informazione dalla Rai a Mediaset, con professionalità e grande empatia. Il suo libro “La famiglia divorata. Vivere accanto al disturbo alimentare” (Mursia) accende anche grazie alla grande sensibilità dell’autrice un importante faro su un argomento che non si racconta mai abbastanza: il disturbo alimentare che ha visto negli ultimi anni soprattutto tra giovanissimi, un incremento del 30%.
Alcuni dati
Una crescita esponenziale che con il Covid ha raggiunto livelli incontrollabili. 400 morti al giorno dai 12 ai 25 anni sono una vera e propria guerra le cui battaglie passano attraverso frasi che nel nostro quotidiano vanno dal “mangia, avanti” allo “smetti di mangiare ma non ti sei visto?”. Se quello che si nota è il dimagrimento o l’ingrassamento quello che non è sempre chiaro da subito è la sofferenza interna a cui nessuno è mai preparato.
Il libro
Il libro nasce con l’esigenza di far parlare genitori, fratelli, sorelle, che attraversano con i loro cari il tunnel del disturbo alimentare. Dodici storie raccontate in prima persona che parlano della guarigione di chi è riuscito a sopravvivere, e del vuoto che lascia chi è vinto dalla malattia. Percorsi tra alti e bassi che vogliono indicare un percorso anche a chi non sa chiedere aiuto. “Sono una giornalista e faccio mea culpa perché per quanto siamo abituati allo studio, e alla ricerca, siamo ancora legati a tanti stereotipi su queste malattie mostruose, mortali, che mettono pazienti e famiglie in condizioni di sofferenza infinita” racconta l’autrice. “Toccata nella mia sfera personale, ho iniziato un percorso di confronto e incontri. Nel periodo di lockdown la situazione è diventata ancora più esasperata e così mi sono avvicinata a Stefano Tavilla, padre di Giulia, scomparsa a 17 anni per bulimia e presidente dell’Associazione ‘Mi nutro di vita’, cui vanno i proventi del libro”.
L’intervista
Scrive che il cambiamento fisico, per chi soffre di disturbi alimentari, non è che l’ultima delle fasi. Perché?
“È soltanto la punta dell’iceberg di un disagio profondo che riguarda l’anima, l’essere. Il disturbo alimentare è multifattoriale e sicuramente la situazione è diventato ancora più devastante durante il lockdown quando nel cibo tanti giovani hanno riversato ansie e frustrazioni e nessuno si è reso conto di quello che stava accadendo”.
Perché i genitori e le persone che vivono accanto a questo dolore spesso brancolano nel buio?
“Nel libro volevo mirare al loro punto di vista, quello delle famiglie, farne capire la solitudine, l’angoscia, la disperazione e l’impotenza. Hai un figlio, magari adolescente, in una fase di cambiamento, una fase in cui si è sensibili e reattivi e i cambiamenti sono fisiologici così il disturbo alimentare non viene subito intercettato. C’è una serie di mutamenti e una serie di fattori in cui mille cose fanno breccia in una condizione di fragilità, in cui si vede la famiglia come responsabile quando in realtà non c’è sempre un disagio familiare. Molte famiglie sono assolutamente accoglienti, eppure accade. Nella vita le cose semplicemente accadono. Eccessi di allenamento o apatia, aggressività: ci si ritrova davanti ad estranei. Involontariamente si diventa complici della malattia perché rispetto al figlio che non mangia o mangia troppo, che si allena in modo eccessivo, si è tentati dal prenderlo di petto imponendosi, ottenendo l’effetto contrario, e intorno diventa l’inferno. Il ragazzo non si sente capito. Se la famiglia non è presa in carico si disperde. C’è bisogno di competenza”.
La malattia stessa diventa arma e difesa contro la famiglia.
“Contro il mondo esterno. La malattia utilizza tutta una serie di ricatti per convincerti che la famiglia è il nemico e la famiglia deve sapere cosa dire e cosa fare, come spiega nel libro Anna Ogliari, responsabile del servizio di psicopatologia dello sviluppo presso il Centro Disturbi del Comportamento Alimentare del San Raffaele di Milano. La famiglia deve fare da coterapeuta. Purtroppo, come mi ha detto una psicologa una volta, la malattia alimentare per tanti versi è peggio del cancro, perché se ti ammali di cancro senti un riconoscimento sociale mentre per tanti il disturbo alimentare è un capriccio, smetti di mangiare perché vuoi fare la modella, oppure mangi perché ti piace mangiare. Il disturbo alimentare è soggetto ad essere stigmatizzato, spinge a cercare l’errore, dimenticando la sua natura democratica e trasversale. Non scatena solidarietà, piuttosto il retropensiero che ‘te la sei cercata’. In realtà questo cancro dell’anima è qualcosa che ti domina il cervello non più comandato dalla volontà ma dalla stessa malattia. Come dice una madre nel libro: sei capace di intendere ma non di volere”.
C’è una tra le storie che racconta che l’ha colpita maggiormente?
“Le ho conosciute tutte, ho conosciuto i protagonisti, con tanti ci sentiamo regolarmente. Per me dal punto di vista genitoriale la più terrificante è quella di Lea, storia in cui i genitori hanno un grande peso, non per la colpa, che con la terapia elabori capendo l’impotenza dell’essersene accorti tardi, ma del dolore di averla persa quando aveva deciso di vivere, quando innamorata, progettava un futuro possibile. Il suo corpo era troppo demolito, c’erano troppi anni di bulimia, lo scompenso cardiaco, il cuore non ce l’ha fatta ed è devastante. È una cosa con cui devi fare i conti per sempre e la madre lo chiarisce bene quando dice: ‘Non so perché sono qui’. Sopravvivere a un figlio è dura. Ma anche per i fratelli è un dolore triplicato. Intriso del senso dell’abbandono come per il piccolo di sette anni che non capisce perché la madre sia sparita dietro una delle sue sorelle quando esiste anche lui. Oppure Matteo e Alice, fratelli legati fino a quando lei si ammala e lui la vive come causa di sofferenza. Indelebile, poi, la storia di Edoardo e Lorenzo. Legati come gemelli, hanno una storia davvero devastante. Condividere la vita, gli amici, e poi dover fare il massaggio cardiaco a tuo fratello ti catapulta nel mondo adulto in venti secondi. Ho conosciuto Edoardo: è una persona di immensa quadratura, a vent’anni è come se ne avesse cinquanta, perché ha vissuto un’esperienza mostruosa”.
Secondo lei chi legge il suo libro e dunque entra in queste storie così particolari e toccanti, che insegnamento può trarne?
“Chi non ha idea di cosa sia il disturbo alimentare ne capirà la serietà, la vera portata. Capirà che è necessario essere uniti e solidali. In qualunque altra patologia il malato lavora con il medico e la famiglia per guarire, qui no, il malato troppo spesso rema contro, e non vuole sempre vivere. Bisogna fare fronte comune senza giudizi o pregiudizi. I medici devono combattere per dominare il mostro trattandolo su più fronti. Si capirà, inoltre, che non esiste il capriccio, altrimenti non morirebbero dieci persone al giorno con un’età che si abbassa sempre di più. È qualcosa di davvero grave. E la situazione è molto peggiorata nell’ultimo anno e solo di recente le istituzioni hanno iniziato a considerare il problema”.
Da dove cominciare?
“Dalle prime fasce d’aiuto: scuole, insegnanti, medici di base. Devono imparare a cogliere i campanelli di allarme, ci deve essere un minimo di conoscenza del disturbo alimentare. I medici di base e i pediatri non sempre sono preparati, spesso sminuiscono, aggravando la situazione. In tutte le regioni devono esserci punti di riferimento, non possono esistere viaggi della speranza, o restare per mesi in una lista d’attesa. E i ragazzi devono essere seguiti da professionisti esperti, non medici generici. Prima del dimagrimento o dell’eccesso di peso esiste un cambiamento nell’atteggiamento che deve essere capito per non arrivare all’estremo”.
Dal tunnel si può uscire?
“Da solo non puoi: è necessario un team che comunica e collabora. I percorsi sono lunghi ma se vieni preso in carico dalle persone giuste puoi intravedere un po’ di luce”.
Pubblicato sul settimanale Visto