Disparità di reddito tra uomini e donne: un’ingiustizia trasversale

Dalle fabbriche agli uffici: un'emergenza socialmente trasversale, un'ingiustizia da affrontare con urgenza. Gender gap nei luoghi di lavoro, disparità di reddito, donne a ridotto controllo delle risorse finanziarie

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Foto di Kelly Sikkema su Unsplash

Gender gap nei luoghi di lavoro, disparità di reddito, donne a ridotto controllo delle risorse finanziarie. Dalle fabbriche agli uffici: un’emergenza socialmente trasversale, un’ingiustizia da affrontare con urgenza. “La professione forense, pur vedendo un incremento di avvocate nelle nuove iscrizioni, mostra una netta disparità di reddito e una crescente percentuale di abbandono tra le professioniste”, afferma Laura Massaro, responsabile dipartimento pari opportunità dell’organismo congressuale forense (Ocf), Massaro rileva che negli ultimi anni la professione forense si caratterizza per una forte presenza femminile, con una media di circa il 47%”. Ma il “divario reddituale tra avvocati e avvocate è preoccupante Le donne avvocato guadagnano in media il 53% in meno rispetto ai colleghi uomini. Con una differenza assoluta di quasi 30mila euro. Una disparità che, secondo la rappresentante Ocf, contribuisce alla precarietà della carriera per le professioniste. A parità di età e di localizzazione geografica, infatti, una donna avvocato percepisce un reddito significativamente inferiore. Sono numerose le problematiche che affrontano le avvocate, aggiunge Laura Massaro. Per esempio il rinvio della maternità per timore di compromettere la carriera professionale è spesso causato dalla carenza di politiche di welfare adeguate.

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Foto di Antonino Visalli su Unsplash

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Prosegue Massaro: “La rinuncia alla professione, anche con competenze e meriti, può derivare dalla precarietà e dalle difficoltà nel conciliare lavoro e famiglia. Così facendo molte avvocate sono costrette a scegliere tra carriera e vita privata. Inoltre, l’accesso limitato a corsi di specializzazione e aggiornamento professionale rappresenta un ulteriore ostacolo“. L’Ocf, quindi, è “impegnato nella sensibilizzazione” delle istituzioni per “rimuovere gli ostacoli all’accesso e all’esercizio della professione e per promuovere lo sviluppo di nuove competenze”. L’inclusione, secondo Massaro, è “fondamentale e deve essere valorizzata, non solo per ragioni di equità. Ma anche per migliorare l’efficienza del sistema professionale e contribuire positivamente al Paese. Investire nell’inclusione e nella valorizzazione delle differenze è essenziale per garantire pari opportunità. E per far sì che la professione forense possa beneficiare della ricchezza di competenze e talenti disponibili”. In generale la situazione sul territorio presenta delle difformità. In Trentino, per esempio, il tasso di attività è del 73 per cento, in aumento su base annua di 0,7 punti percentuali. Lo rileva l’Istituto di statistica provinciale che ha rilasciato il report sull’andamento del mercato del lavoro relativo all’anno scorso. “Nel confronto territoriale il tasso si posiziona su un livello leggermente inferiore a quello del Nord-Est, pari al 73,8 per cento, è più contenuto rispetto al dato rilevato per l’Unione europea, che è del 75 per cento, e si mantiene significativamente distanziato dalla media nazionale, pari al 66,7 per cento – si legge nell’indagine -. In tutti i territori emerge una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, ma il Trentino registra il più basso differenziale di genere, fatta eccezione per l’Unione europea con 9,6 punti percentuali. 10,5 punti contro i 18 punti percentuali in Italia e i 12,6 punti percentuali nel Nord-Est“.

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Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Gender gap

In Italia, poi, gli uomini prendono le decisioni finanziarie nel 78% dei casi, le donne solo nel 22%. A rivelarlo è un recente rapporto Consob sugli investimenti delle famiglie italiane che evidenzia un preoccupante gender gap nella gestione delle risorse economiche. Questo dato, però, potrebbe risultare parzialmente fuorviante, considerando l’aumento dei nuclei familiari composti da una sola persona. In ambito internazionale, l’Italia occupa posizioni basse nelle classifiche relative a questo tema. Nonostante gli sforzi politici degli ultimi anni, le misure adottate hanno avuto un impatto solo parziale. L’autorità di vigilanza sui mercati finanziari ha fornito ulteriori dettagli sulle caratteristiche degli investitori italiani. L’investitore medio ha un reddito inferiore ai 3.000 euro mensili. Gestisce meno di 50.000 euro. Appartiene alla fascia d’età tra i 45 e i 54 anni. E’ prevalentemente uomo e sposato. Un aspetto interessante è la crescente rilevanza della fascia di popolazione prossima alla pensione, tra i 55 e i 64 anni, che mostra una partecipazione simile a quella della fascia più attiva, quella tra i 35 e i 44 anni. Nonostante la maggior parte delle persone gestisca meno di 50.000 euro, è importante notare che quasi un terzo degli investitori ha disponibilità finanziaria compresa tra 50.000 e 250.000 euro. Inoltre, circa un terzo degli intervistati guadagna tra i 3.000 e i 5.000 euro mensili.

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Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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L’analisi ha rivelato che il 42% degli investitori italiani gestisce autonomamente le proprie finanze. Decidendo come far fruttare i propri risparmi senza affidarsi a consulenti esterni. Una cifra quasi equivalente, il 40%, si affida a esperti professionisti. Ma senza delegare completamente le decisioni. Un ulteriore 32% degli investitori richiede anche un aiuto informale. Mentre solo il 9% si rivolge a esperti in modo informale. Le percentuali di chi delega completamente gli investimenti a un professionista sono marginali, con solo il 6%, e il 3% si affida esclusivamente ai social network per le proprie scelte finanziarie. Gli italiani tendono a preferire investimenti a medio termine. Il 38% degli investitori impiega il proprio denaro per periodi compresi tra i 3 e i 5 anni. Mentre il 24% opta per investimenti più brevi, da uno a 3 anni. Insomma, gli investitori italianai preferiscono la liquidità avere un accesso relativamente veloce ai fondi piuttosto che impegnarsi in investimenti a lungo termine. Questo atteggiamento viene mantenuto anche se annichilisce gli effetti benefici garantiti dall’interesse composto. E denota quindi la resistenza degli italiani verso il mondo degli investimenti. Solo il 22% delle famiglie considera investimenti medio-lunghi, da 5 a 10 anni. E una percentuale ancora più ridotta, il 7%, investe in progetti con una prospettiva oltre i 10 anni.