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Il diritto alla disconnessione per evitare il burn out da smart working

L’aumento del “lavoro agile”, avvenuto negli ultimi mesi, ha prodotto, infatti, nuove dinamiche di interazione fra il dipendente e l’azienda

Il “diritto alla disconnessione”, riconosciuto dalla Legge 61 del 6 maggio 2021, permette al lavoratore italiano che si trovi nella condizione di “smart working”, di non essere continuamente disponibile e raggiungibile, senza ripercussioni sulla sua professionalità o carriera. L’aumento crescente del “lavoro agile”, avvenuto negli ultimi mesi, ha prodotto, infatti, nuove dinamiche di interazione fra il dipendente e l’azienda. La possibilità di essere disponibili e connessi ha generato una comunicazione continua, al limite di una reperibilità lungo quasi tutto l’arco della giornata, rendendo sempre più minimale il confine tra la vita privata e quella lavorativa.

Cosa dice la legge

Il comma 1-ter della Legge n. 61 del 6 maggio 2021 (di conversione del DL 30/2021) riconosce “al lavoratore che svolge l’attività in modalità agile il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati. L’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”. Il datore di lavoro può inviare mail o messaggi in orari diversi da quelli di servizio ma il dipendente non è tenuto ad aprirle né, per questo, può incorrere in sanzioni. L’espressione “over-comunication” indica il rischio del sovraccarico di contatti e messaggi che potrebbero derivare dall’utilizzo smisurato di telefonate, mail e social.

Una libertà solo apparente

Il ricorso notevole al lavoro agile ha rappresentato un’idea di libertà, in cui lo svolgimento dei propri doveri lavorativi, si è abbinato a una gestione più elastica e indipendente dell’intera giornata. Questa novità, in molti casi, ha, tuttavia, generato una libertà solo apparente o di breve durata in quanto il lavoratore, pienamente intriso nei dilatati ritmi di servizio, ha perso la distinzione netta con la vita privata di cui godeva in precedenza. In alcuni casi, ciò ha portato allo sviluppo di patologie mentali non di poco conto ed è risultato necessario ricorrere all’aiuto di specialisti.

Salvaguardare la salute

Le forme di lavoro a distanza, nella confusione dell’emergenza sanitaria, hanno rappresentato, infatti, una nuova esperienza accolta con sorpresa e con entusiasmo (pur nelle difficoltà del periodo). Successivamente, in virtù anche dell’assenza di una preparazione pratica e di una parziale vacanza in campo normativo, hanno portato a disagi psicofisici, fino alle forme di esaurimento (burn out). È opportuno, al fine di salvaguardare la propria salute fisica e mentale, ove possibile, ritagliarsi uno spazio lavorativo domestico. Risulta, altresì, necessario, delimitare i diversi momenti della giornata e rispecchiare, nelle abitudini e nei preparativi, le modalità canoniche del lavoro in presenza, per evitare rilassamenti e condotte promiscue. La rivoluzione ha riguardato ogni settore lavorativo e si è giovata, nella maggior parte dei casi, dei sistemi di messaggistica, dei social e delle piattaforme on line. WhatsApp, in particolare, ha sostituito i canali istituzionali di comunicazione, al punto che, in alcuni settori, come la scuola, è stata ribadita la sua illegittimità a vantaggio dell’uso del Registro Elettronico e delle piattaforme ufficiali.

Blended work

In alcuni casi si ricorre a una formula ibrida, definita “blended work” che prevede alcuni giorni di lavoro in smart working e altri in presenza. I fautori di questo metodo puntano sul periodico confronto fisico tra i lavoratori e sulla possibilità del mantenimento del cosiddetto “senso di appartenenza” che, restando perennemente lontano dal luogo di lavoro, tenderebbe a diminuire. Il dipendente, in tal caso, avrebbe un maggior ausilio nello spezzare l’eventuale commistione lavoro/privato e, periodicamente, di vivere secondo i classici ritmi professionali.

Porre il lavoratore nelle condizioni ottimali, sia mentali sia fisiche, significa anche ottenere una maggiore produttività, abbinata a una performance di qualità. Spingere solo sul risultato numerico e quantitativo, a spese dell’equilibrio e del benessere del dipendente, alla lunga non comporta benefici per nessuna delle parti. Per capire il fenomeno, occorre ricordare come, nella fase acuta dei lockdown, nel 2020 quasi 7 milioni di persone abbiano lavorato in smart working, un numero che decuplica gli stessi dati riferiti al 2019.

Alcuni dati

Osservatori.net è “una piattaforma multimediale e interattiva per l’aggiornamento professionale sull’Innovazione Digitale con centinaia di contenuti ed eventi realizzati da analisti ed esperti”. Il 3 novembre scorso, al link https://www.osservatori.net/it/ricerche/infografiche/rivoluzione-smart-working-futuro-da-costruire-adesso-infografica, ha indicato gli ultimi dati in possesso; si legge “I risultati della ricerca 2021 dell’Osservatorio Smart Working stimano, ad un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, 5,37 milioni di lavoratori da remoto, in decrescita nei mesi successivi. Gli smart worker hanno sperimentato vantaggi in termini di work-life balance, efficienza ed efficacia lavorativa, ma anche criticità come calo dell’engagement, overworking e tecnostress. Per l’81% delle grandi imprese, il 53% delle PMI e il 67% delle PA il lavoro da remoto fa parte di un modello di Smart Working strutturato o informale, e nell’89% delle grandi imprese, nel 35% delle PMI e nel 62% delle PA, lo Smart Working rimarrà o diventerà, al termine dell’emergenza, una pratica presente nell’organizzazione”.

Lo smart working “in libreria”

Luca Solari, professore universitario di Organizzazione aziendale, e Francesco Rotondi, avvocato, sono gli autori del volume “Agile, smart, da casa. I nuovi mondi del lavoro”, edito da Franco Angeli nel maggio scorso, in cui si affrontano, in maniera dettagliata, le ultime frontiere professionali. La tecnologia deve rimanere al nostro servizio e non il contrario. La pandemia ha accelerato nuove forme di lavoro e di contatto che devono essere “sfruttate” solo per i loro utilizzi benefici nei confronti dell’individuo, altrimenti risultano nocive e sono da evitare.

Evitare l’iperconnessione

La tutela normativa è fondamentale per evitare la cosiddetta “iperconnessione”. È necessaria, tuttavia, anche una consapevolezza del dipendente affinché sia capace di discernere la separazione tra il tempo professionale e quello privato e non si adagi a mescolarli. Una piccola concessione, in tal senso, può costituire un ingenuo viatico che conduce all’abitudine e alla passiva accettazione.

L’esortazione di Papa Francesco

Papa Francesco, nell’Angelus del 18 luglio scorso, ricordava “Impariamo a sostare, a spegnere il telefonino, a contemplare la natura, a rigenerarci nel dialogo con Dio. […] Solo il cuore che non si fa rapire dalla fretta è capace di commuoversi, cioè di non lasciarsi prendere da se stesso e dalle cose da fare e di accorgersi degli altri, delle loro ferite, dei loro bisogni. La compassione nasce dalla contemplazione. Se impariamo a riposare davvero, diventiamo capaci di compassione vera”.

È importante ribadire come la disconnessione sia necessaria, per vari motivi. Oltre a garantire il giusto recupero psicofisico, deve assicurare la possibilità di dedicarsi ad altre attività fondamentali: il rapporto con i familiari, gli amici e anche il prossimo, in un’ampia prospettiva di empatia, fino al suo grado più elevato, quello della compassione.

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