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De Gasperi, quando la giovane democrazia immaginò l’Europa

Ricostruire l’Italia immaginando la più ampia casa dell’Europa. Un progetto nato e cresciuto tra i rottami post-bellici, l’unico tratto in grado di accomunare realmente i vincitori e i vinti che si ritrovarono a convergere nel consesso di Parigi per i Trattati di pace del 1947. Un contesto in cui piccoli e grandi si ritrovarono gli uni di fronte agli altri con l’obiettivo di risollevare l’umanità dal suo punto più basso, cercando tra le macerie il nesso giusto per ricostruire da uomini di pace. Alcide De Gasperi fu rappresentante di un’Italia sconfitta, convitato consapevole di un’assemblea con giudizio già emesso, accolto e ascoltato in quella che lui stesso definì “qualifica di ex nemico”. Eppure, dinnanzi alle potenze democratiche uscite vincitrici dal Secondo conflitto mondiale, De Gasperi si presentava come uomo del mondo nuovo, di un’Italia rinnovata da un voto referendario che ne aveva accantonato i trascorsi monarchici per avviare il percorso di una Repubblica anch’essa nuova di zecca. Già privo, come il suo Paese, di quella veste da ex nemico che, come ribadì egli stesso, “non fu mai quella del popolo italiano”.

Quando De Gasperi immaginò l’Europa

La fine della Seconda guerra mondiale aveva di fatto fissato un nuovo anno zero. Non solo per la quasi automatica polarizzazione del potere mondiale in due distinte metà del mondo ma anche per la necessità di rimettere in piedi un sistema democratico che appariva fin troppo vulnerabile, nonostante le democrazie avessero infine vinto il conflitto. Un contesto storico di scarsa fiducia reciproca, di diffidenza verso il futuro, con elevato rischio di categorizzazioni spicciole. Un quadro di riassestamento nel quale appariva complesso immaginare la ripresa interna, figurarsi una convergenza degli ideali democratici in un unico ente, in grado di consolidare l’Europa nella terza potenza mondiale.

Il futuro prende forma

Dinnanzi ai vincitori, parlando da vinto, De Gasperi arrivò a immaginare ciò che, in quel momento, immaginabile non era. Sarebbe servito ancora qualche anno per far sì che l’idea di unire le forze condividendo basi identitarie e idee per il futuro prendesse forma. Fu proprio De Gasperi uno dei promotori della nuova concezione dell’Europa, quando il desiderio di assottigliare i rischi di nuovi conflitti convinsero lui e altri leader europei (i francesi Jean Monnet e Robert Schuman e il belga Paul-Henri Spaak) a unire le forze nella produzione di carbone e acciaio, i materiali ritenuti più importanti per l’industria militare.

Perché un’idea di Europa

L’idea di Europa non era nuova né, probabilmente, rivoluzionaria. Eppure, aver ventilato la possibilità di utilizzare il dolore comune per un conflitto inumano come spinta propulsiva per un futuro condiviso, apparve già allora come una sfida visionaria. Una missione poggiata sulla convinzione di poter realmente riaffermare i valori primordiali del Vecchio continente, a cominciare dalla fede cristiana, in contrapposizione all’ascesa delle nuove superpotenze e al rischio di creare, nella fase di ricostruzione, i contesti per nuove irreparabili crisi nazionali, come accaduto dopo la Prima guerra mondiale. Un messaggio che l’allora presidente del Consiglio veicolò nella fase conclusiva del suo discorso, quando insistette sulla necessità di “riaffermare la fede della nuova democrazia italiana nel superamento della crisi della guerra e nel rinnovamento del mondo operato con validi strumenti di pace”.

Memoria e futuro

Lasciare un segno nella Storia significa vivere nella consapevolezza del proprio tempo. E, a posteriori, averne a sufficienza per riconoscere il valore della memoria. I settant’anni trascorsi dalla morte di De Gasperi rappresentano un momento di riflessione e, insieme, di valutazione storica. Non sulla figura dello statista ma sulla capacità delle nuove generazioni di riconoscerne il valore nella costruzione del futuro. Che poi è il nostro presente. Un interrogativo implicito, che riguarda la percezione stessa di una storia nazionale pienamente appartenente al secolo scorso ma la cui eredità è la nostra stessa quotidianità civile. Per la quale la memoria non è solo un dovere ma un obbligo morale imposto dal passato.

Damiano Mattana

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