La pandemia ha spazzato via tante nostre quotidiane certezze, facendo emergere paure e fragilità, e spezzato tante vite di persone care, giovani e anziane, di persone sole o ai margini della nostra società. Il momento che stiamo attraversando ci ha ricordato allora l’importanza dell’esistenza dell’essere umano che dobbiamo tutelare e difendere con la relazione, i sentimenti, le cure mediche e la cura. E “Custodire ogni vita” è il messaggio della quarantaquattresima Giornata nazionale della vita, istituita nel 1978 dal consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana (Cei) con la finalità di promuovere l’accoglienza della vita. “La lezione della recente pandemia, se vogliamo essere onesti, è la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme”, ha detto papa Francesco il 13 ottobre 2020. In occasione di questa giornata, che si celebra ogni prima domenica di febbraio e quest’anno cade il 6 febbraio, Interris.it ha parlato del tema della custodia della vita con il professor Alberto Gambino, giurista e Prorettore Vicario presso l’Università degli Studi Europea di Roma, presidente dell’Associazione Scienza&Vita.
L’intervista
Il messaggio della 44esima Giornata nazionale della vita è incentrato sulla “custodia”. Cosa significa “custodire la vita” e come si pratica?
“Custodire la vita significa assumersi responsabilità. Come i custodi dei beni materiali, che impediscono violazioni da parte di chi vuole sottrarre quei beni, siamo chiamati a custodire qualcosa di molto più grande: l’esistenza dell’essere umano. Questa responsabilità implica azioni e sforzi concreti soprattutto quando la vita è più fragile e vulnerabile”.
Quanto è di stringente attualità oggi questa iniziativa? E in quale contesto è nata la Giornata nazionale?
“Non c’è un momento storico in cui la custodia della vita sia più urgente di altri. Basta scorrere le tappe dell’umanità e rendersi conto che la vita, specie se degli “altri”, ha subito ferite sanguinose e imperdonabili. La giornata, nata nel 1978, anno della legge 194 sull’aborto, vuole confermare l’intangibilità della vita di ciascun essere umano a cominciare dalla sua esistenza nel grembo materno”.
Come e quanto la pandemia ha inciso sulla custodia della vita e cosa può averci insegnato questo avvenimento carico di paura e dolore?
“La pandemia ha messo a nudo la fragilità dell’umanità, soprattutto del mondo economicamente più avanzato, dove si respirava un’aria di superiorità tecnologica e di autosufficienza. In pochi mesi è stata sgretolata questa percezione globale. A livello individuale, la pandemia ha portato sofferenza fisica e psicologica; ha messo in crisi certezze esistenziali che sembravano acquisite. Dopo le crisi si può risorgere ma soltanto se gli sforzi da solitari si fanno comunitari. In questo si ripone la speranza di oggi verso il futuro”.
L’inverno demografico, con il crollo della natalità, colpisce da tempo l’Occidente. Come si può far fronte a questo fenomeno, almeno a livello nazionale?
“Solo in un modo: con interventi normativi ed economici a favore delle famiglie. E’ tempo che chi ha a cuore il tema della natalità si metta in gioco anche elettoralmente e aggreghi quanti stanno sulla stessa lunghezza d’onda per entrare nei meandri dei luoghi di governo della cosa pubblica dove si decidono le politiche su questo tema, tema evidentemente che riguarda tutti i settori della legislazione, dal fisco agli investimenti infrastrutturali, passando per la sicurezza e la cultura. Quando si sente l’esigenza di istituire un ministero per le politiche familiari- oggi presieduto dalla bravissima Elena Bonetti – significa che la politica ha marginalizzato quel tema. Una dinamica molto simile alle cosiddette “quote rosa” che servono a creare una riserva forzata di presenza femminile. Per recuperare tassi di natalità accettabili per il nostro futuro ci vuole molto più coraggio e, visto che l’attuale classe dirigente su questo tema dimostra di averne poco, allora siamo chiamati tutti a fare la nostra parte”.
Cosa possiamo fare per custodire la vita di tutte quelle persone che sono costrette a lasciare la loro casa, la terra, il loro Paese, per fuggire da malattie, conflitti, miseria, persecuzioni, nella speranza di un’esistenza migliore?
“C’è soltanto un modo: una grande e generosa politica estera. La lungimiranza dello statista sta nel sentire che la propria azione politica deve cominciare dai luoghi di maggiore sofferenza per l’umanità. Luoghi interni ed esterni al proprio Paese. Invece, ad esempio, si accaparrano i vaccini per l’Occidente e si mandano gli scarti in Africa. È da questo tipo di azione politica che si annienta la vita delle persone costrette a lasciare la casa natia in cerca di un’esistenza migliore, che spesso anche altrove poi non arriva”.
Il Santo Padre nella sua enciclica Laudato Si’ indica la via delle cultura della cura. Chi sono gli ultimi di cui dobbiamo prenderci cura?
“Basta guardare tra i nostri parenti e conoscenti per capire chi sono gli ultimi. Poi ci sono gli ultimi “invisibili”, a cominciare da quelle vite imprigionate in una provetta nell’azoto, per proseguire con chi si nasconde la notte sotto i ponti delle nostre città, per finire con chi soffre in silenzio, malato e solo. Sono talmente tante le persone di cui possiamo prenderci cura che ci dimentichiamo cinicamente di loro. Per questo diventa fondamentale che qualcuno, come Papa Francesco, lo ricordi senza risparmio per risvegliarci dal torpore della nostra aridità d’animo”.
Quali risposte dà la cultura della cura a uno dei temi oggi particolarmente all’attenzione del dibattito pubblico e politico, rappresentato dal disegno di legge sul fine vita approdato alla Camera dei deputati lo scorso dicembre e l’attesa pronuncia il 15 febbraio prossimo della Corte costituzionale sull’ammissibilità del quesito referendario che chiede l’abrogazione dell’articolo 579 del codice penale, la norma che punisce l’omicidio del consenziente?
“La cultura della cura sta un po’ a guardare, se è vero che al momento fioccano presso la Corte soprattutto fiumi di memorie scritte dai radicali per l’udienza del 15 febbraio, dove si deciderà sull’ammissibilità del referendum. Confido però che la Consulta non deciderà in base ad argomenti ideologici, ma applichi, come sa fare, il diritto costituzionale e, dunque, respinga un referendum che per aprire all’eutanasia vorrebbe abrogare la norma generale che incrimina chi uccide una altro essere umano su richiesta, a prescindere dalle sue condizioni di salute e di fine-vita. Quanto al disegno di legge che intende recepire la sentenza della Corte costituzionale che ha legittimato, in alcuni casi, il suicidio assistito del malato terminale, il mio giudizio – in termini giuridici – è negativo soprattutto perché nell’attuale versione va ben oltre quanto indicato dalla Corte. Anche qui confido che il testo si instradi nel solco dei nostri principi costituzionali, soprattutto quelli che chiedono solidarietà e tutela delle vite più fragili e indifese”.