C’è stato un momento, a Qaraqosh, in cui un’informe residuo d’architettura fumante testimoniava la presenza, in quel luogo, di una cattedrale cristiana. In quel frammento di terra, nel nord dell’Iraq, aleggiava il ricordo del male, dell’odio cieco, della distruzione che la furia fanatica era in grado di essere compiuta da uomini contro altri uomini. Una profanazione che, nella desolazione lasciata dai miliziani dell’Isis, si confondeva nell’orizzonte di devastazione e miseria. Perché, dove l’odio colpisce, le macerie umane, architettoniche e spirituali si somigliano un po’ tutte. Qaraqosh, come Mosul, strappata dalla carne del territorio iracheno e trasformata in roccaforte jihadista, privata della sua storia ma non della sua memoria. Perché, se c’è stato un momento di follia, c’è stato anche spazio per la speranza. Quella portata da Papa Francesco, nel 2021, quando incontrò le comunità cristiana prima della celebrazione conclusiva, a Erbil, del suo viaggio in Iraq. Un incontro che portò, in un contesto di enorme sofferenza, la vicinanza della Chiesa e del Signore. Una sorta di nuovo annuncio che, in quei momenti, lasciava presagire ben più che una semplice speranza. Perlomeno uno spiraglio per il compimento del sogno di una nuova vita.
L’incubo di Daesh
La presenza della jihad, però, aveva infettato in profondità anche quei luoghi. Non solo ne aveva ferito la storia e la sacralità, costringendo migliaia di persone a lasciare le proprie terre: aveva reso il suo suolo sterile, intriso dal veleno della paura. Nella notte tra il 6 e il 7 agosto del 2014, le milizie del sedicente Stato islamico palesò la sua avversione per la confessione cristiana, costringendo oltre 100 mila persone a lasciare le proprie case. Un esodo forzato che privò la nutrita comunità del luogo (circa un milione e mezzo di cristiani) della stragrande maggioranza che viveva alla periferia di Mosul, già caduta nelle mani di Daesh. Nei giorni in cui le violenze jihadiste scuotevano l’Occidente (e di lì a poche settimane sarebbero arrivate le feroci esecuzioni di cronisti come monito agli Stati Uniti e ai loro alleati), centinaia di famiglie raccoglievano in fretta il necessario per riparare verso Erbil, cacciate con la forza da un territorio dove, fino a quel momento, avevano vissuto fianco a fianco alla ben più nutrita comunità musulmana.
L’insicurezza irachena
Nonostante il dominio dell’Isis sia effettivamente terminato con la caduta di Mosul nell’ambito della riconquista coadiuvata dalle forze speciali statunitensi, nel 2017, il lascito della dominazione jihadista è tuttora presente. E, quasi con stessa forza dei tempi della dominazione, continua a far aleggiare gli spettri del suo terrore. Anche perché, oggi come ieri, l’instabilità politica del Paese rende difficile gestire una situazione di post-crisi, in particolar modo quella riguardante una minoranza religiosa. Del resto, come ricorda Azione contro la fame, l’Iraq è tutt’oggi un territorio che risente della recente dominazione jihadista, oltre che dei postumi dei conflitti risalenti al periodo del regime di Saddam Hussein. Al momento, ricorda l’organizzazione, la summa dei fattori ha consegnato un Paese che dipende, per oltre il 50%, dalle importazioni. Una situazione che rende di fatto impossibile una ripresa effettiva della vita nelle aree più soggette all’impatto di Daesh, mancando un’equa distribuzione delle risorse (perlopiù mancanti nelle zone meridionali del Paese) e del tessuto occupazionale.
I cristiani in Iraq
Il risultato, è una riduzione progressiva della presenza cristiana in Iraq, con una comunità che, come spiegato dal Patriarcato caldeo, conta meno di 500 mila fedeli a fronte del milione e mezzo che vi risiedeva prima dell’invasione. A questi, come riferito dallo stesso Patriarcato, vanno sottratti anche i quasi 1.300 rimasti uccisi. Un quadro che, a fronte delle problematiche interne vissute tutt’oggi dal Paese, significa una criticità insormontabile per molti cristiani che, nonostante tutto, sarebbero disposti a rientrare a Ninive. Un territorio che, teoricamente, dovrebbe presentarsi come casa ma che, al momento, ha ancora l’aspetto di rovine fumanti. Per i fantasmi di un vicino passato e per un’incognita troppo pesante sul futuro prossimo.