Tutto troppo complicato fare passi ulteriori. Il mantra ripetuto dal governo è stato questo, a seguito del nuovo Dpcm che, di fatto, ha dato il là a una ripresa che sarà solo un accenno. Almeno per il momento: l’ondata del contagio da coronavirus è infatti lontana dai numeri della fase critica, tanto da convincere l’esecutivo a effettuare un primo tentativo di allentamento delle misure restrittive, concedendo qualcosa, almeno sulla carta, a una cittadinanza estenuata da due mesi quarantena e cassa integrazione. Il punto, però, è che non si tratterà di una vera ripartenza, quanto più di un giro di vite in senso contrario, considerando l’elevato rischio di un ritorno di fiamma del Covid-19. Quanto basta, comunque, per scatenare il dibattito sulla mossa del governo, fra chi l’ha ritenuta una manifestazione di prudenza e chi di poco coraggio. Condizione che, inevitabilmente, ha portato i primi scontri non solo con le opposizioni (con buona pace dell’appello del Presidente della Repubblica a remare tutti nella stessa direzione) ma anche in maggioranza.
Verso la risalita
Il nodo della vicenda Covid, al di là dell’aspetto sanitario, quello primario e imprescindibile, è sempre stato capire quanto la frenata delle attività produttive sarebbe costata. E non solo in termini economici, ma anche e soprattutto in termini di forza lavoro a emergenza finita. Il sentore comune, specie per la piccola e media impresa, è che il colpo di martello si riveli infine troppo forte per quella fascia di lavoratori che già prima della crisi sanitaria versava in condizioni di difficoltà, o ai quali la chiusura ha significato l’azzeramento dei guadagni, ormai da due mesi, in attesa dell’arrivo concreto del sussidio. Una polveriera che, al momento, sembra quasi far più paura di una possibile risalita del picco dei contagi. Modificando, gioco forza, le prospettive della classe media sulle azioni di tutela della salute, specie in attesa di definire fino in fondo quanto e cosa finirà concretamente nelle tasche degli italiani. E, in questo quadro, rischia di consumarsi l’attrito più rischioso, oltre che deleterio, in un’ottica di ripartenza, mettendo Stato e Regioni uno di fronte all’altro, con il rischio serio che saltino le linee guida comuni, a discapito della sicurezza dei lavoratori: “In Lombardia – ha spiegato a Interris.it Andrea Donegà, segretario generale Fim Cisl regionale – sono già aperte parecchie aziende, perché ovviamene alcune rientravano nei codici Ateco previsti dal Dpcm per la riapertura”.
Tematiche impellenti
La priorità al momento, in Lombardia come nelle altre regioni, resta preservare il tessuto sociale animato dalla forza lavoro: “Al momento – ha spiegato Donegà – non ci sembra di vedere una strategia sul come costruire la Fase 2. Si è parlato a lungo di test seriologici, di app e anche di tamponi ma non sono seguite direttive specifiche. Se tutto si fosse svolto per tempo avremmo avuto una base di dati scientifici su cui ragionare in modo più strutturato come stanno facendo anche altri Paesi. Ecco perché al momento sono due le tematiche più impellenti. Innanzitutto il tema dei trasporti: siamo in una regione in cui si usano molto i mezzi come tram, autobus, metropolitane e c’è il timore del rischio che si creino luoghi e occasioni di contagio. Bisognerebbe intervenire per garantire la messa in sicurezza di chi lavora nei trasporti e di coloro che si dovranno recare al lavoro. L’altro tema riguarda i congedi parentali: le scuole chiuse, i nonni fuori gioco per un po’ di tempo perché nella fascia più a rischio contagio, c’è il rischio che molte famiglie si trovino in condizioni di difficoltà. Molte donne si trovano di fronte alla triste scelta tra lavorare o rinunciare al lavoro per poter accudire i figli. Non vorremmo che il coronavirus sia la stagione in cui si arrivi a porre questo quesito”.
Catene produttive
C’è però un ulteriore punto che sembra preoccupare la sigla sindacale dei lavoratori, in questi casi: “Speriamo venga prolungata la cassa integrazione. Noi in Lombardia abbiamo avuto oltre 15 mila richieste nel settore metalmeccanico, per un totale di 280 mila lavoratori. Le aziende che sono già partite dal 23 febbraio hanno finito le nove settimane, per questo è urgente prolungare la misura per i lavoratori di quelle imprese che soffriranno: alcune perdono quote di mercato perché, trattandosi di una pandemia, i problemi che si verificano in alcuni stati hanno riflessi diretti sulla produzione italiana. La Lombardia è molto integrata dal punto di vista industriale nella catena globale delle grandi produzioni. Quello che preoccupa è che non vediamo una grossa strategia da parte del governo per riportare il Paese verso la normalità. Il punto, secondo me, è che non abbiamo dati scientifici”.
Occhio di riguardo
Parola d’ordine: non lasciare indietro nessuno. Un concetto da tenere ben presente, non solo in fase di gestione dell’emergenza, ma anche nel momento di dare il là al rilancio complessivo del Paese. Per questo, ragionando sulle riaperture, alcune categorie meritano un occhio di riguardo: “Un altro problema – ha spiegato Donegà – è anche la tutela degli ipersuscettibili, quelli che hanno patologie o determinate condizioni che, qualora dovessero contrarre covid, avrebbero gravi conseguenze. Ad esempio gli ipertesi, immunodepressi, i reduci da cure oncologiche o anche le donne in gravidanza. Sono persone che necessitano di una tutela in più. Quindi nel lavoro che stiamo facendo all’interno delle aziende, siamo impegnati a costruire accordi e protocolli che garantiscano la ripresa in sicurezza e la tutela dei lavoratori per evitare assembramenti e occasioni di contatto e di contagio, e che mantengano un occhio di riguardo va dato anche a queste persone”. Con la speranza che alle iniziative corrispondano linee guida reali quando sarà il momento di ripartire. Quello vero.