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Coronavirus, una voce dal Brasile: “Così viviamo la pandemia”

A Interris.it la testimonianza di un giovane brasiliano, che vive nella sua Rio l'emergenza Covid-19: "Qui sembra che non si sia compreso fino in fondo cosa sta accadendo"

“Le nostre vite devono continuare, il lavoro deve andare avanti”. La linea di Jair Bolsonaro sull’emergenza coronavirus è sempre stata chiara, meno che all’opinione pubblica mondiale. Laddove i Paesi chiudevano, applicando misure di prevenzione e di salvaguardia, più che di cura, il suo Brasile ha risentito di una linea politica discorde, frammentata fra le direttive di Planalto, fin troppo ottimistiche, e quelle dei governatorati regionali, chi più chi meno orientato all’adozione di misure “europee” contro il progredire dei contagi. Inevitabile la frattura fra l’amministrazione centrale e quella locale, con Brasilia da sempre reticente a mettere in lockdown il Paese e alcuni governatori prodighi nel consigliare i cittadini a restare in casa, al fine di scongiurare la diffusione incontrollata di una malattia che, in un contesto come quello brasiliano, significherebbe un possibile disastro.

Caos a Planalto

Le tensioni in Brasile non si sono concentrate solo sul piano culturale. La bagarre politica che ha coinvolto fin da subito il presidente Bolsonaro, in modo forse più controverso di quanto non fu in occasione dei roghi in Amazzonia dell’agosto scorso, si è concretizzata con l’allontanamento del ministro della Salute, Luiz Henrique Mandetta. Una rimozione in parte attesa, viste le divergenze emerse fra lui e il leader del Paese, con una visione difforme su cosa davvero servisse al Brasile per tutelarsi contro la minaccia Covid-19. Un attrito che di sicuro non fa bene a un Paese che, conti alla mano, rappresenta il Paese più colpito dall’emergenza sanitaria: 38.654 contagi, 2.462 decessi. Numeri allarmanti, anche pensando ai contesti più degradati del Paese, dove una progressione del contagio rischierebbe di diventare incontrollata, a fronte dell’assenza delle basilari norme igieniche.

La testimonianza

In Brasile, di fatto, c’è lo specchio di un Continente che nell’irrequietezza politica ha visto in questi mesi il suo peggior nemico. Una stagione di rivolte che ha pervaso l’America latina da nord a sud sconvolgendone in molti casi gli assetti, ma estromettendo a dire il vero proprio lo Stato brasiliano, frammentato da un’amministrazione che, nonostante i grandi consensi, non ha mai del tutto convinto nemmeno i cittadini. Forse per questo laggiù, nonostante l’emergenza abbia già da tempo varcato i confini del Paese, il dibattito sulla leadership di Jair Bolsonaro sembra interessare più della progressiva diffusione del Covid fra i brasiliani. Alex, giovane padre di famiglia residente a Rio de Janeiro, racconta a Interris.it il paradosso che attanaglia la sua Nazione, ancora lontana dal comprendere l’effettiva gravità di quanto accade lì come nel resto del mondo: “Qui c’è una situazione diversa rispetto all’Italia. Tutto ciò che accade è motivo di litigio politico. Il nostro presidente non sembra di sapere come agire in modo adeguato. Le persone sono preoccupate e un litigio politico è la preoccupazione peggiore che puoi dare a chi è malato. L’assurdità è che, in questo momento, le persone sembrano più in apprensione per quanto accade nella politica che per il progredire della malattia”.

La preoccupazione brasiliana

Rio de Janeiro è uno dei centri gravitazionali del Paese, cuore pulsante di una Nazione che storicamente combatte per migliorare la propria vita e il proprio futuro, facendo i conti con realtà sociali che richiedono ben altro che una semplice presa di coscienza. Anche per questo, secondo Alex, la turbolenza politica gioca un ruolo fondamentale: “Il nostro presidente ha licenziato il ministro della Salute. Questa è stata un’altra assurdità, perché ha cercato di fare un buon lavoro. Parlando con i miei amici emerge questa preoccupazione, che è quasi più rilevante della considerazione di chi è malato. Sembra quasi che le persone, qui in Brasile, non vedano e non sentano le notizie che arrivano dal resto del mondo”. Alex racconta una realtà lontana, fatta di quotidianità troppo radicate per essere messe da parte attraverso la semplice paura. E la fiducia altalenante nell’istituzione centrale di certo non aiuta: “Il primo caso di questa malattia è del 19 febbraio e la prima persona è deceduta a marzo. Adesso ci sono più di 2.400 deceduti in appena un mese. Eppure sembra che la popolazione qui a Rio non sia preoccupata di restare a casa. Io – ha spiegato – abito in un palazzo che si trova di fronte alla via principale del mio quartiere, ed è sempre piena di gente, di auto e di autobus. Le persone stanno morendo ma non sembrano poi così preoccupate. E’ veramente assurdo”.

Confusione politica

Uno scenario in cui la tensione politica gioca un ruolo fondamentale, vista anche la sostanziale libertà d’azione degli amministratori locali. Lo Stato carioca, ad esempio, qualche misura l’ha adottata: “Nonostante questo, però, c’è molta confusione. Alcuni giorni fa, il presidente ha litigato con il nostro sindaco, a seguito di un’ordinanza in cui disponeva, qui a Rio, che nessuno potesse prendere la metro senza una ragione valida di lavoro. Ha detto che i nostri poliziotti avrebbero dovuto consentire alle persone di salirvi solo se avessero potuto dimostrare la validità della loro motivazione, scontrandosi con Bolsonaro. Qui la popolazione è un po’ persa”.

Un problema culturale

Ma il Brasile non è mai stato solo politica. La fervente vitalità di quel popolo ha contribuito, negli anni, ad accrescerne l’identità culturale, esaltandone pregi e difetti. Un riflesso sociale che, secondo Alex, sta influendo anche sull’impatto del coronavirus: “C’è una questione di tipo culturale: ci piace il benessere, ci piace stare in compagnia e non stiamo molto attenti alle cose brutte. Se qualcuno dice, per assurdo, che hanno scoperto una strega in Inghilterra, noi non ci preoccupiamo. Se poi dovesse arrivare in Brasile ma non nella nostra città, non ci si preoccupa. Le persone non credono che le cose brutte possano succedere anche vicino a loro. Questo fa un po’ parte della nostra cultura. Ma ora le persone sono decedute vicino a noi. Avremmo dovuto fare attenzione già dal primo marzo, non adesso”.

I quartieri poveri

A Rio de Janeiro solo alcuni negozi sono rimasti aperti. Qui, ai piedi del Corcovado, dal quale il Redentore continua ogni giorno ad abbracciare il popolo del Brasile, si vive una vita sospesa ma senza lo stile “lockdown” che si respira al di qua dell’Atlantico. Nonostante gli echi provenienti da San Paolo, dove gli escavatori hanno ampliato il cimitero di Vila Formosa per far sì che ognuno possa ricevere una degna sepoltura, le giornate scorrono  in una sostanziale, per quanto forzata, quotidianità. Gli orrori che la pandemia ha prodotto nella città paulista, come nel vicino Ecuador, sembrano ancora distanti. Anche a due passi da alcune delle zone più difficili delle cosiddette periferie del mondo: “Qui ci sono quartieri molto poveri, le favelas, e la situazione lì è anche più brutta. Mia moglie mi ha raccontato, qualche giorno fa, di aver sentito dire che in una favela le persone non avevano acqua per lavare le mani. Come si fa a pensare a un’azione di tutela della salute se queste persone non hanno nemmeno questa possibilità?

Timore per il futuro

La speranza di Alex è un po’ quella di tutti coloro che, in coscienza, cercano di fare il massimo per limitare il progredire della malattia: “A emergenza finita ci sarà da affrontare il problema economico e lì sembra davvero essere di fronte a qualcosa di finito. Qui i negozi sono chiusi, tranne che per alcune eccezioni, le banche sono aperte tra le dieci e le quattro. Eppure, nonostante questo e un’ordinanza emanata dal sindaco, tantissime persone vanno in giro senza mascherine. Sembra come se, ora che la malattia è arrivata, si pensi che non sia poi così brutta come si pensava“.

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