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Contro la mafia e lo spaccio di droga: don Coluccia e il suo impegno a San Basilio

L'intervista a don Antonio Coluccia, sacerdote, che da anni lotta nel quartiere romano San Basilio per mettere fine allo spaccio e al consumo di droga

Don Antonio Coluccia, prete vocazionista anti-spaccio di San Basilio, quartiere periferico e degradato di Roma è diventato “Poliziotto ad honorem”. Lo scorso 29 settembre, in occasione delle celebrazioni in onore di San Michele Arcangelo proclamato Patrono e Protettore della Polizia di Stato da Papa Pio XII, don Coluccia ha ricevuto l’encomio dalla Polizia di Stato con questa motivazione: «Per la sua quotidiana lotta contro il traffico di stupefacenti e la sua attività di sostegno e recupero dei giovani».

Quasi tutte le notti il sacerdote scende in strada e passeggia per le vie di San Basilio recitando il vangelo, con l’obiettivo di far allontanare gli spacciatori e le vedette. Minacciato più volte di morte, don Coluccia non si è mai arreso. La sua missione è quella di evangelizzare il quartiere di San Basilio, uno dei più degradati della capitale. Il suo impegno, la sua costanza e la sua presenza hanno ridato fiducia agli onesti cittadini, i quali sperano anche nell’intervento delle istituzioni. Don Antonio Coluccia sta portando avanti da anni la battaglia contro la ’Ndrangheta, le bande degli albanesi e i clan romani, che si spartiscono lo spaccio della droga nella Gomorra capitolina e, quando arriva e scende dall’auto blindata che gli fa da scorta, la prima vedetta che lo incrocia gli dice: «Levate!», ma lui per nulla spaventato continua la sua opera. «Studiate, lo studio farà di voi delle persone migliori e vi darà la possibilità di crearvi un futuro diverso ma soprattutto un futuro onesto»: è il suo messaggio per i giovani.

Qualche anno fa a Specchia, il suo paese d’origine in provincia di Lecce, crivellarono la sua auto a colpi di pistola. Lui, per nulla scoraggiato e con una forza incredibile, ha continuato e continua anche oggi la sua incessante lotta contro i clan mafiosi, in particolare contro quella che è considerata la cosca più spietata e pericolosa: la mafia del Gargano. A dispetto della pandemia, in Italia come nel resto del mondo la pandemia della droga non si è mai arrestata. La criminalità ha trovato nuovi canali e la tossicodipendenza è stata lasciata da parte dalle istituzioni. «Sono contro la legalizzazione delle droghe leggere», dice don Coluccia. «Il disegno di legge che prevede la depenalizzazione della coltivazione in casa della cannabis per uso personale è un chiaro segno che lo Stato si è arreso. Si vuole legalizzare la cannabis mentre non si fa nulla per contrastare il suo consumo e l’età di chi la consuma scende sempre di più: oggi si inizia a fumare lo spinello a 11 o 12 anni».

Come ha reagito quando la Polizia di Stato le ha conferito il titolo di “Poliziotto ad honorem”?

«Sono molto onorato e ringrazio la Polizia di Stato per questo encomio. Pochi giorni dopo la mia nascita sono stato battezzato dal fratello di mio padre, Vito Coluccia, morto nel 1996. Mio zio è stato un sovrintendente della Polizia vittima del dovere, mentre con la volante prendeva parte alla cattura di un latitante della Sacra Corona Unita. Il ricercato era stato individuato all’interno di un locale pubblico e nel recarsi sul posto, a causa dell’asfalto viscido per la pioggia, la volante uscì fuori strada, scontrandosi contro il pilastro di un cavalcavia e lui perse la vita. Questo premio lo dedico a mio zio e a tutti gli uomini delle forze dell’ordine, mancati durante lo svolgimento del loro lavoro».

Perché ha scelto di fare il sacerdote, lasciando un lavoro fisso da operaio?

«Negli anni Novanta ero un giovane operaio di 23 anni e lavoravo in un’azienda del calzaturiero. Ero fidanzato e presidente di un’associazione di volontariato, che si è prodigata in numerose missioni sia all’estero sia in Italia. La vocazione venne quando andai in Albania, precisamente a Valona, durante la missione “Arcobaleno”, l’iniziativa promossa dal nostro governo per aiutare i profughi albanesi durante la guerra del Kosovo. L’Albania in pochi giorni fu costretta a ospitare centinaia di migliaia di profughi kosovari, spaventati dai serbi che distruggevano i loro villaggi, massacrando e violentando uomini, anziani, donne e bambini. Quello che conoscevo solo nei film horror io l’ho vissuto nella realtà. Quelle scene di guerra, di disperazione, fame e miseria mi sconvolsero e decisi di cambiare la mia vita. Volevo diventare un servo di Gesù per aiutare gli altri, i poveri, i più disperati, gli emarginati della società».

Per il suo impegno a Roma contro la criminalità di strada del suo quartiere vive da anni sotto scorta: non teme per la sua vita?

«La paura è un’emozione che fa parte della vita è da sempre presente nel genere umano, a volte è utile perché ci mette in guardia dai pericoli, però mi sento protetto, sia dai poliziotti che vegliano su di me 24 ore al giorno, sia dall’alto del cielo. Io continuo con la mia pastorale di evangelizzazione attraverso l’associazione da me fondata, “l’Opera Don Giustino”, (www.operadongiustino.it), un’organizzazione no profit che si dedica al disagio e all’emarginazione sociale e che accoglie gratuitamente i giovani che cadono nel buio delle dipendenze. L’ Opera si impegna in una pastorale di strada con particolare attenzione ai territori segnati dal disagio sociale dove le organizzazioni criminali dominano indisturbate».

Lei ha trasformato la villa di un boss della Banda della Magliana, alle porte di Roma, in una casa di accoglienza per i poveri: non ha paura che vengano a riprendersela?

«È impossibile: la confisca di questa villa che adesso è la sede della mia associazione, rappresenta la vittoria del bene sul male. Nella cassaforte dove i malavitosi custodivano i soldi e la droga io oggi tengo i generi di prima necessità: pasta, sale, e zucchero. Questo è il bene più prezioso».

Dove trova la forza per andare avanti nonostante le minacce che riceve quasi quotidianamente?

«La forza la trovo pregando ogni giorno con Gesù, lui riesce a darmi una forza incredibile, mi aiuta, mi ascolta. Sono un padre vocazionista e vivo la vita di comunità professano i voti di castità, povertà e obbedienza. A tutti può capitare di perdere la fede, soprattutto quando si vivono momenti di maggiore sconforto, oppure quando si vedono tante persone soffrire o giovani ragazzi morire per la droga. In quei momenti io mi attacco con tutte le mie forze a Cristo, chiedendogli di aiutarmi e di darmi la forza per combattere e di essere sempre presente per i più bisognosi. Ogni giorno appena mi alzo ripeto le parole: “Credo e vedo in ogni anima un Santo, anche sotto la scorza del male stimo e venero il possibile Santo futuro”. Sono di don Giustino Russolillo, il fondatore della Congregazione religiosa dei Vocazionisti».

Recentemente durante un giro notturno, lei è stato minacciato di morte da un giovane spacciatore. È stato l’ennesimo avvertimento. Cosa si sente di dire a queste persone che quotidianamente vivono spacciando, rubando o costringendo giovani donne a prostituirsi?

«A queste persone dico di pentirsi. Gesù è pronto a perdonarli a patto che possano riscattare il male e il dolore che hanno causato con i loro comportamenti, aiutando i meno fortunati. Una sera, mentre ero in giro a predicare il Vangelo, mi si è avvicinato un uomo dicendomi che dovevo continuare ad operare per il bene. Solo qualche giorno dopo venni a sapere che era un malavitoso. Questo significa che in qualsiasi momento della nostra vita possiamo pentirci e tornare sulla retta via, basta volerlo e avere fede».

Come è possibile recuperare chi è indifeso ed esposto alla tentazione di varcare il confine tra lecito e illecito?

«Cerco sempre il dialogo con i giovani, a volte gioco con loro a pallone che è un modo di socializzare ma anche di attirare la loro attenzione. Cerco poi di trasmettergli messaggi positivi, li esorto a studiare, perché solo attraverso lo studio possono crearsi un futuro. San Basilio è uno dei quartieri più degradati di Roma. Una giovane vedetta, solo per avvisare i complici del mio arrivo o l’arrivo della polizia, guadagna 150 euro al giorno. Un giovane spacciatore ne guadagna tre volte di più, inoltre la criminalità gestisce anche le case popolari e se lavori con loro hai anche la casa gratis. Io non mi demoralizzo, vado avanti cercando di creare luoghi d’incontro, luoghi di cultura e di sport. Una mano però ce la deve dare anche lo Stato: se non vogliamo correre il rischio di perdere interi quartieri, bisogna riportare l’ordine, abbellire queste zone periferiche, dotarle di scuole e infrastrutture, dove i giovani possono trovarsi e fare amicizia. Quotidianamente cerco di tenere i ragazzi lontani dalla criminalità, ma da solo non posso farcela e non posso sostituirmi allo Stato».

Per la sua attività le sono stati dati dei soprannomi: prete di strada, prete coraggio, prete degli ultimi e infine prete poliziotto. Lei come si definisce?

«Sono solo un umile sacerdote vocazionista di strada, la mia missione è di annunciare e divulgare il Vangelo, che non discrimina, ma unisce, che non condanna, ma ti assolve e perdona se hai peccato. San Basilio è composto da tantissima gente per bene, ma è anche famoso per essere una delle piazze di spaccio più grandi d’Italia. Si parla spesso dei quartieri difficili di Napoli, ma San Basilio è la Gomorra della capitale dove droga e soldi sembrano lava che esce da un vulcano in continua eruzione. Mi rattrista e ferisce vedere giovani ragazzi perduti nell’illegalità o vendere morte ad altri loro coetanei e dove intere famiglie vivono con i proventi dello spaccio. Finché avrò le forze cercherò di scardinare questa cultura malavitosa e dare a questo quartiere un futuro di speranza».

Tra i suoi collaboratori oggi c’è l’ex mafioso Santino Di Matteo. Suo figlio Giuseppe venne sciolto nell’acido da Giovanni Brusca. Come è riuscito a convertire uno degli artefici della strage di Capaci, accusato di altri dieci omicidi mafiosi?

«A convertirlo furono le parole che Santino udì al telegiornale il 9 maggio del 1993 dette da Giovanni Paolo II mentre si rivolgeva ai mafiosi: “Convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio”. Quelle parole cominciarono a scuoterlo dentro e hanno sicuramente avuto un peso quando decise di iniziare a collaborare con la giustizia. Grazie alla mia opera è diventato una persona diversa e oggi è una risorsa preziosa nella lotta contro la criminalità organizzata: collaborando con lo Stato ha potuto far comprendere quale fosse il linguaggio all’interno dell’organizzazione criminale di Cosa Nostra, permettendo così il successo di diverse operazioni di polizia».

Quali sono oggi i suoi progetti futuri?

«A breve dovrebbero partire i lavori per la costruzione di una palestra e di campi di calcio. Ma il mio lavoro è quello di continuare a sensibilizzare i ragazzi mettendoli al riparo dall’uso delle droghe, continuando la mia opera di pastore nelle scuole. I giovani devono amare la vita e non sprecarla: basta davvero poco per rovinarla per sempre».

Pubblicato sul settimanale Visto n. 51 del 9 dicembre 2021

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