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Colombini (Cisl): “Manca una strategia nazionale di prevenzione” – Audio –

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Si celebra oggi la Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro. Un tema molto attuale, soprattutto in questo periodo caratterizzato dalla pandemia da coronavirus. L’articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo riconosce ad ogni persona il diritto a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro. Il tema della ricorrenza per quest’anno è “Fermare la pandemia: sicurezza e salute sul lavoro possono salvare vite umane“.

Il lavoro ai tempi della pandemia

A causa della diffusione del contagio da coronavirus, molte aziende e imprese hanno dovuto chiudere i battenti. Tantissimi lavoratori, purtroppo, sono rimasti a casa e questo ha generato una forte crisi economica che ha colpito molte famiglie. Molti altri, invece, hanno dovuto contare sul loro “spirito di adattamento“, in particolar modo nei primi periodi, in quanto sprovvisti dei dispositivi di protezione individuale. Molte imprese, ma anche la Pubblica Amministrazione, hanno fatto fronte all’emergenza affidandosi allo smart working. Interris.it, in occasione di questa giornata mondiale, ha intervistato Angelo Colombini, segretario confederale Cisl per le politiche dell’artigianato, cooperazione, energia, istruzione, ambiente, difesa del suolo, sviluppo del territorio, fondi comunitari, salute e sicurezza.

Dottor Colombini, ci sono le garanzie necessarie per evitare che si rischino passi indietro sul fronte dei contagi, pensando al rientro al lavoro?
“Con il varo del Protocollo condiviso, quello del 14 marzo scorso, e la stipula del Protocollo di sicurezza anti-contagio, in ogni realtà lavorativa sono state predisposte tutte le regole necessarie per garantire la ripresa delle attività, innanzitutto, nel rispetto della tutela della salute dei lavoratori. Inoltre, se verranno rispettate le due regole cardine del distanziamento sociale e l’igiene delle mani, si può essere certi che il contagio verrà sufficientemente scongiurato. La stessa scelta di molti Governatori delle Regioni di prevedere l’obbligo delle mascherine, aumenterà il contenimento”.

Per non creare ulteriori danni alla nostra economia, la ripresa in quali tempistiche dovrebbe essere effettuata?
“Non trascuriamo un fattore: già nella fase 1, circa oltre due milioni di aziende erano attive, tutte in quanto, come stabilito dai codici Ateco, lavorazioni ritenute necessarie oppure produzioni collegate. La fase 2, se sarà gestita in modo scaglionato e con le dovute attenzioni, potrà consentire un riavvio riordinato e civile di tutte le attività lavorative. I problemi più gravi ci saranno per la ripresa della scuola, ristorazione e turismo che richiedono interventi di riorganizzazione profonda sia dal punto di vista dei costi, che della sanificazione e per la gestione degli spazi. Sulle scuole credo che si potrebbe sperimentare una parziale apertura durante gli esami di maturità, sanificando, pulendo, mantenendo le distanze di sicurezza e utilizzando i dispositivi di protezione individuale. Questo potrebbe essere di aiuto per poi trasmettere un’esperienza ben precisa in vista dell’apertura di settembre”.

Probabilmente, a causa della crisi causata dalla pandemia, molte imprese non riusciranno a riaprire. Cosa si dovrebbe fare per aiutare tutti questi lavoratori?
“Bisognerebbe velocizzare l’erogazione della cassa integrazione, di qualsiasi tipo. E’ importante riconoscere liquidità alle imprese, è vitale per le persone che senza reddito saranno sempre più in grande difficoltà nell’acquisto delle prime necessità. Bisogna tenere in grande considerazione anche le parole di Papa Francesco quando ha affermato che se non c’è reddito e attenzione nei confronti delle persone, queste possono essere anche ‘invitate’ dall’usura o dalla malavita, situazioni negative che non contemplano la dignità delle persone. Secondo, bisogna far diventare realtà le politiche attive del lavoro, per molti anni se ne è parlato ma non sono mai diventate concrete. E’ necessario prevedere percorsi di accompagnamento delle persone, verso la riqualificazione e verso nuove attività. Questo perché se si chiudono le aziende – purtroppo succederà anche questo – dobbiamo predisporre della strumentazione per lavoratori e lavoratrici, oltre alla liquidità per le imprese”.

A livello di sicurezza e salute sul lavoro, come si classifica l’Italia in Europa?
“Si colloca a metà tra i Paesi europei. Ma bisogna fare una precisazione, perché queste classifiche non sono mai attendibili concretamente: si basano su ‘dati freddi’, estrapolati dal contesto produttivo-sociale. Ricordiamo che in Italia il 95-98% delle imprese ha una media di 4,5 lavoratori, realtà che altri Paesi non hanno. Infine, bisogna considerare un altro dato, quello relativo agli infortuni e alle malattie professionali. Noi usiamo un tipo di calcolo, in Europa un altro. In Italia è previsto l’obbligo di segnalazione all’Inail da parte dei datori di lavori anche degli infortuni che determinano l’assenza di un solo giorno, mentre in altri Stati l’obbligo di segnalare quelli da tre giorni di assenza in su. Per cui il modello di classificazione di tali eventi è difficile da confrontare tra noi e il resto dell’Europa. L’unica vera mancanza che noi abbiamo in Italia è l’assenza di una strategia nazionale di prevenzione, che come sindacato abbiamo sempre sottolineato ai governi, non solo all’attuale, ma anche ai precedenti. Questa strategia è fondamentale per poter garantire quel concreto piano di intervento e misure di prevenzione di lavoratori”.

Abbiamo visto come per necessità, in Italia ci si sia rapidamente adattati allo smart working. Pensa che sia possibile mantenere e implementare questa modalità lavorativa una volta finita l’emergenza?
“Precisiamo che quello che abbiamo attuato in questi mesi è più telelavoro che smart working, essendo tutti costretti a rimanere in casa. Ogni azienda, a partire dalla Pubblica amministrazione, dovrebbe rielaborare l’esperienza che abbiamo vissuto in questi mesi ed estrapolare nuove modalità di lavoro, con una rilettura del lavoro differente rispetto ad ora. Cosa non facile, a causa anche del ritardo culturale: il manager vuole che il lavoratore stia nel suo ufficio. Per la Pubblica Amministrazione, dopo la crisi, dovrebbe concordare con il sindacato che un terzo dei dipendenti possa operare da remoto, perché alcune attività possono essere gestite anche in questa modalità”.

L’Italia sta facendo abbastanza per preparare le nuove generazioni a questo tipo di lavoro?
“No. Lo smart working è visto ancora come una modalità concessa solo in determinati casi, perché subentrano casi particolari. L’esperienza di questi mesi ci deve rilanciare in un modo differente. Per esempio, anche il settore bancario che ha siglato maggiori accordi su questo strumento, ancora oggi non riconosce a chi fa lo smart working una serie di diritti come buoni pasti, collegamento a internet o regole chiare per la cosiddetta ‘disconnessione’. Si confonde il lavoro remoto come un benefit al lavoratore, ma non è così. E’ una modalità lavorativa legata a degli obiettivi ben precisi. Serve un profondo cambiamento, anche culturale. In seguito, lo smart working va introdotto nell’organizzazione dell’impresa, così facendo aumenta la produttiva intellettuale. In questi mesi, alcune aziende hanno avuto più produttività con lo smart working rispetto a quando i dipendenti erano effettivamente presenti sul luogo di lavoro. E’ una cosa positiva. In questo periodo di confinamento, al di là della drammaticità di quanto accaduto, spero che sia servito ad avviare una riflessione concreta sul lavoro agile, compreso l’abbattimento dei costi, la riduzione dell’inquinamento. Dall’altro lato, non bisogna perdere l’aspetto della valorizzazione dei rapporti interpersonali. In questo senso è giusta una compresenza tra smart working e lavoro in ufficio”.

Nel nostro Paese si riscontrano ritardi nell’utilizzo delle nuove tecnologie. A cosa sono dovuti?
“A un ritardo culturale e per la scarsità degli investimenti. Abbiamo visto con il piano Impresa 4.0, che cambiata la compagine di governo, si è vista una riduzione di impegno dello Stato su questo aspetto. Le nuove tecnologie per avere successo, hanno bisogno di una riorganizzazione del lavoro ed una maggiore conoscenza, più formazione e partecipazione dei lavoratori. Introducendo nuove tecnologie bisognerà, in futuro, distribuire di più il lavoro, forse valorizzando anche l’orario di lavoro. La nuova tecnologia è molto più veloce rispetto alla ‘old’, e impiegherà meno persone”.

Parlando di aiuti alle imprese, partite iva e lavoratori autonomi, lo Stato ha fatto abbastanza per sostenerli in questo periodo storico così particolare?
“Dobbiamo chiederci se si poteva fare di più. Bisogna tenere in conto che un’attenzione al reddito anche per le Partite Iva è importante. Come sindacato abbiamo chiesto che questi 600 euro nel prossimo decreto possano aumentare. Forse si poteva fare di meglio, a partire dalla velocità di erogazione di cui parlavamo prima, non solo per le imprese, ma anche per i lavoratori, sia dipendenti che automoni. L’Europa fortunatamente ha sospeso il patto di stabilità ed è positivo, ma abbiamo bisogno di nuove regole. Mentre noi metteremo sul piatto le poche risorse che abbiamo, la Germania, senza i vincoli del Patto di Stabilità, sta utilizzando tutta la sua potenza economica per aiutare le sue imprese e i lavoratori. Io credo che dobbiamo liberare molto di più dei 55 miliardi ‘nuovi’ che verranno riconosciuti nella seconda fase; è una cosa positiva, ma sia per il reddito che per la liquidità delle imprese c’è bisogno di un’attenzione maggiore. Se non si fa circolare moneta, l’economia non si riprende. I prossimi mesi saranno un punto di riferimento per recuperare il Pil che stiamo perdendo. Servirebbe una compagine di governo che dialoghi compiutamente sia con l’opposizione che con le parti sociali. Di fronte a una grande difficoltà come questa bisognerebbe unirsi per il bene del Paese. Noi invece siamo tutti divisi per il bene o della nostra regione o del nostro governo, ma non per il bene comune di tutti gli italiani. Siamo sempre divisi rispetto a questo modo di intendere la politica come un bene di partito, non come il bene del popolo. E’ questo il punto nevralgico della nostra politica”.

Manuela Petrini: