“Ho visitato i campi e i braccianti e ci sono condizioni disumane, uno Stato non può permettere questo, non può permettere il caporalato. E’ inaccettabile che nel Paese ci siano condizioni che possiamo chiamare di assoluta schiavitù“. Così si è espresso qualche giorni fa il presidente della Camera, Roberto Fico, in collegamento da Vieste (in provincia di Foggia), una delle terre dove ogni anno le forze dell’ordine scoprono decine di casi di sfruttamento del lavoro in agricoltura, specie durante i mesi estivi per la raccolta dei pomodori.
Cosa è il caporalato e perché si chiama così
Il caporalato è una forma illegale di reclutamento e organizzazione da parte della criminalità organizzata della mano d’opera nel lavoro dipendente, sanzionata dagli ordinamenti di vari Stati del mondo, Italia compresa
Il fenomeno è così detto dalla denominazione gergale degli intermediari – detti appunto “caporali” – che assumono per breve periodo (giornaliero o al più settimanale) operai senza rispettare le regole di assunzione e i diritti dei lavoratori. I salari elargiti ai lavoratori sono infatti notevolmente inferiori rispetto a quelli del tariffario regolamentare e privi di versamento dei contributi previdenziali, di malattia, di protezione dagli infortuni e di straordinari.
l caporalato è spesso collegato ad organizzazioni mafiose e malavitose. Esso generalmente trova grande riscontro nelle fasce più deboli e disagiate della popolazione, ad esempio tra i lavoratori immigrati, come gli extracomunitari. Il fenomeno del caporalato si è ancor più diffuso con i recenti movimenti migratori provenienti dall’Africa, dalla Penisola Balcanica, dall’Europa orientale e dall’Asia: infatti chi migra clandestinamente nella speranza di migliorare la propria condizione finisce facilmente nelle mani di queste persone, che li riducono in condizioni di schiavitù e dipendenza.
Ma il danno del caporalato, così come del lavoro in nero, ha serie ricadute non solo sul lavoratore diretto, ma anche su tutta la società con notevoli costi e perdite per lo Stato e infine per il cittadino, come spiega a In Terris il dottor Romano Magrini, Responsabile Lavoro Coldiretti.
L’intervista al dottor Romano Magrini
Come la Coldiretti si pone di fronte al triste fenomeno del caporalato, che ogni anno – specie in estate – si ripresenta in Italia?
“La Coldiretti ha messo in campo molteplici iniziative. Innanzitutto, monitorando il problema, attraverso l’Osservatorio sulle Agromafie [spiegato nel video, ndr] presieduto da Giancarlo Caselli; sviluppando accordi di filiera improntati alla sostenibilità etica, economica, ambientale; promuovendo l’integrazione dei lavoratori, attraverso servizi residenziali, logistici, formativi; determinando l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, considerando che la maggiore richiesta di domanda di lavoro ha una connotazione stagionale. Ovviamente, tutto questo ha bisogno dei controlli e della presenza dello Stato che deve essere parte attiva nel combattere questa piaga sociale e nel sostenere le imprese danneggiate dalla concorrenza sleale di chi opera nell’illegalità”.
Quanto perde lo Stato a causa del caporalato e della manovalanza in nero?
“Lo Stato perde in credibilità, in capacità di dare risposte alle esigenze del territorio e delle persone, in opportunità, in legalità, ovviamente anche in risorse, visto che il sommerso causa un danno erariale difficile, se non impossibile, da quantificare. Non solo, il mancato controllo di questi fenomeni penalizza le imprese oneste e danneggia e ostacola anche il processo di integrazione di coloro che vengono nel nostro Paese per lavorare e per costruirsi una famiglia ed un futuro migliore; persone di cui la nostra società, in fortissima crisi demografica e di valori, avrebbe veramente bisogno”.
E’ vero che senza caporalato gli ortaggi costerebbero troppo al consumatore e dunque è un “male necessario”?
“Assolutamente no. Se fosse così, infatti, non sarebbe possibile produrre in Italia senza caporalato o lavoro nero. Invece la parte preponderante delle imprese rispetta le regole, retribuisce correttamente i propri collaboratori, nonostante la concorrenza sleale di chi sfrutta i lavoratori o dei prodotti di importazione che non rispettano le regole in vigore in Italia dal punto di vista dell’ambiente, della salute e, appunto, del rispetto dei lavoratori così come dei consumatori”.
Da cosa è influenzato il prezzo finale dei prodotti agricoli?
“Il prezzo dei prodotti agricoli, dei prodotti ortofrutticoli nello specifico, è fortemente influenzato da quanto viene ricaricato a valle, tra trasporti, imballaggi trasformazione, distribuzione. Basti pensare che in una bottiglia di passata di pomodoro, la bottiglia di vetro pesa sul prezzo finale al consumo più di quanto viene pagato il pomodoro al produttore. La retina di plastica dove sono contenuti gli agrumi costa più di quanto viene pagato per 1 kg di clementine al produttore. La differenza tra il guadagno e la perdita è spesso di 10, 20 centesimi di euro al chilogrammo. Questi soldi però devono essere recuperati nei rapporti di filiera con l’industria e la trasformazione, non sfruttando il lavoro nei campi”.
Combattere il caporalato è un bene anche per l’ambiente? Perché?
“Sì. Perché spesso l’illegalità non si ferma allo sfruttamento dei lavoratori, ma sfrutta la terra, la rende sterile, utilizza antiparassitari vietati, più tossici e meno costosi, elimina i rifiuti in modo improprio, per non pagare per la corretta gestione. Da questo punto di vista le agromafie, che gestiscono il caporalato ed il lavoro nero, sono particolarmente interessate all’agro-alimentare, perché consente di ‘ripulire’ le risorse provenienti dalle altre attività illecite”.
Cosa propone Coldiretti per contrastare il caporalato?
“Gli strumenti sono: uno Stato presente, che fa rispettare le regole; accordi di filiera, con una giusta remunerazione del lavoro di tutti ed un prezzo adeguato al consumo; un mercato del lavoro più trasparente, con la possibilità di mettere in contatto domanda ed offerta”.
Il lavoro in agricoltura è molto variegato?
“Sì perché non tutto il lavoro in agricoltura è fisso, ci sono esigenze di lavoratori stagionali che, come avviene nelle zone meglio organizzate, vengono in Italia per due-tre mesi. Per la vendemmia, la raccolta delle mele, etc., ci sono aziende che da decenni richiamano sempre gli stessi collaboratori. Allo stesso modo ci sono lavoratori ormai inseriti stabilmente nelle aziende zootecniche o florovivaistiche che si sono fermati in Italia e hanno radicato la loro famiglia nel nostro Paese”.
Qual è il messaggio finale di Coldretti?
“La produzione del cibo è un lavoro serio, non può essere improvvisato e ha bisogno di professionalità; non può essere fondato su sfruttamento e disperazione”.