Da otto lunghi mesi, da quel 24 febbraio 2022, la guerra è tornata nell’orizzonte dei pensieri e delle preoccupazioni dei cittadini occidentali, soprattutto gli europei. Le notizie provenienti dall’Ucraina hanno scandito giorni e settimane, raccontando di vite spezzate e vite in fuga. C’è, purtroppo, un’altra vittima del conflitto militare: l’ambiente che ci circonda, ci ospita e ci nutre. Spesso è proprio per accaparrarsi ciò che lo rende vitale e prezioso che si innescano conflitti, a spese delle risorse naturali e degli ecosistemi. Più di venti anni fa, il 5 novembre 2001, l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha istituito il 6 novembre la Giornata internazionale per la prevenzione dello sfruttamento dell’ambiente in situazioni di guerra e conflitto armato. Un evento che punta a sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto le guerre facciano male al suolo, all’aria, all’acqua, alla flora e alla fauna, e ci ricorda che anche un ambiente “sano” è una condizione per la pace.
L’intervista
In occasione di questa data, Interris.it ha intervistato Lorenzo Ciccarese, responsabile dell’Area conservazione della biodiversità terrestre dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e rappresentante nazionale all’ Intergovernmental Science-Policy Plaftorm on Biodiversity and Ecosystem Services ((Ipbes).
Secondo il Programma ambientale delle Nazioni unite, negli ultimi sei decenni almeno il 40% di tutti i conflitti interni è legato allo sfruttamento delle risorse naturali. Quanto è stretto allora il legame tra l’ecologia, il rispetto dell’ambiente, e la pace?
“Nel 2015 un articolo scientifico si interrogava se c’era un nesso di causalità tra il cambiamento climatico e lo scoppio della guerra in Siria. Nel Paese c’era stata una prolungata siccità a cui era succeduta una riduzione della produzione di grano, oltre ovviamente ad altre colture, che è la principale fonte di alimentazione della popolazione siriana. Questi fattori hanno provocato migrazioni dalle zone rurali negli insediamenti urbani e questa situazione, secondo l’articolo, potrebbe aver innescato una serie di attriti sociali”.
Da otto mesi sul fianco orientale dell’Europa, in Ucraina, va avanti un conflitto. Quali sono i danni, immediati, sul lungo periodo, e i rischi per l’ambiente nel contesto di una guerra?
“Tante evidenze scientifiche sottolineano i legami tra le grandi questioni ambientali, socio-ecologiche, come il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, l’alterazione del ciclo dell’acqua, la degradazione del territorio, e i conflitti. Sono temi concatenati, spesso i primi sono la causa scatenante di conflitti tra i popoli. In Africa registriamo guerre latenti per lo sfruttamento delle risorse biologiche. In riferimento ai rischi e ai danni, già in Kosovo osservai la devastazione degli ambienti naturali nel conflitto e una serie di effetti indiretti a seguire. In Ucraina i danni immediati sono quelli provocati dai bombardamenti e dai movimenti delle truppe sulla selvaggina, la flora e i suoli, tra i quelli non immediati abbiamo per esempio la scarsità di risorse finanziarie da dedicare alla conservazione di queste zone come anche il fatto che molto aree, tra cui i boschi, vengono minate e recintate, così che non ci può prendere cura di quegli ambienti. C’è un’area, detta l’‘Amazzonia d’Europa’, che si sviluppa in gran parte in Ucraina e in Bielorussia, oltre che in Russia, la Polesia. E’ un vastissimo territorio da 18 milioni di ettari, quasi due terzi dell’Italia, che ospita uno straordinario patrimonio di biodiversità, tanto è ricca di fauna e di specie migratrici. La comunità scientifica teme però che con la guerra vengano meno i sistemi di controllo e di gestione dell’area per evitare la caccia illegale e il bracconaggio. Anche gli zoo rischiano di risentire della mancanza di risorse economiche e diventa più difficile nutrire gli animali o spostarli per tutelarne l’incolumità”.
Quanto questi danni, diretti e indiretti, si ripercuotono su quei settori economici legati all’ambiente, come l’agricoltura, l’allevamento, la pesca?
“La guerra in Ucraina evidenzia la debolezza dei sistemi alimentari. Con la globalizzazione delle filiere agricole, circa il 40% del grano commercializzato su scala mondiale viene dall’Ucraina e dalla Russia e il conflitto ha reso molto difficile la coltivazione di frumento, mais e girasole, molto importanti per l’alimentazione di Paesi africani come l’Egitto, con le conseguenti penurie e aumento dei prezzi. Inoltre molte colture vengono abbandonate. L’Ucraina è anche il principale produttore di concimi azotati per l’agricoltura e adesso che in Europa iniziano le concimazioni, c’è il problema della loro disponibilità e del loro costo”.
A livello mondiale, siamo nel pieno del cambiamento climatico e assistiamo alla perdita della biodiversità. Quanto velocemente si sta aggravando la situazione?
“L’ultimo rapporto di valutazione dell’Ipcc delle Nazioni unite dice che da quando sono disponibili i parametri climatici, dal 1850 circa, abbiamo avuto un aumento delle temperature medio di 1,2 gradi centigradi, con alcune regioni del mondo che si sono riscaldate di più, tra cui quella che oggi è l’Unione europea, rispetto alla media globale. L’aumento della temperatura porta con sé l’alterazione di tutti i processi meteo-climatici, infatti registriamo eventi estremi sempre più numerosi, frequenti ed estesi. Di questo passo, secondo gli scienziati, arriveremo a tre gradi di aumento. Il rapporto dell’Ipcc sul cambiamento climatico ci dice anche che il differenziale tra 1,5 e 2 gradi centigradi ha un grande significato, perché anche nel cambiamento all’interno di quell’intervallo potrebbero innescarsi processi caotici non lineari. Cosa in parte sta già succedendo, come dimostra lo scioglimento del permafrost. Fenomeno che rischia di liberare miliardi di tonnellate di metano nell’atmosfera, con effetti non prevedibili”.
Come possiamo invertire la tendenza?
“Dobbiamo raggiungere gli obiettivi di dimezzare le emissioni di gas climalteranti entro il 2030 e completare il processo di decarbonizzazione entro la metà del secolo. Siamo in ritardo nelle misure politiche su scala globale e a questo si sono aggiunte anche le incertezze geopolitiche, ma non abbiano altra scelta. Occorrono cambi radicali, come realizzare un 30% di aree protette entro il 2030 e aumentare gli sforzi di ripristino della biodiversità nelle aree agricole, nelle aree urbane e peri-urbane e comunque esterne alle aree protette per salvare la biodiversità, altrimenti corriamo il rischio di perdere, nell’arco di alcuni decenni, un milione su quattro delle specie conosciute. La biodiversità è importante, per il World economic forum nel 2019 il 50% del prodotto interno lordo mondiale era legato ad essa, e l’Ipbes, il corrispettivo dell’Ipcc sulla biodiversità, nel suo rapporto ‘ValuES’ include sia i valori strumentali che i valori detti relazionali, quelli culturali, spirituali e affettivi. Per invertire la tendenza possiamo ricorrere anche a quelle che sono chiamate ‘nature-based solutions’, come la conservazione di foreste, aree umide o prati stabili. Ancora, ripristinare pratiche come l’inerbimento, per evitare le erbe infestanti, o l’agricoltura biologica. Circa 10-12 miliardi di tonnellate di CO2 annue possono essere assorbite così, si tratterebbe di un terzo degli impegni di riduzione previsti”.
Parte in Egitto la Cop27. Cosa dobbiamo aspettarci, dopo il vertice di Glasgow dello scorso anno?
“Il multilateralismo ambientale può diventare un terreno di pacificazione per il climate change e la perdita di biodiversità. Mi aspetto che riprenda la cooperazione internazionale, ci sono temi innovativi su cui si potrà costruire una nuova qualità della vita e un nuovo spirito di rapporti tra Paesi. Attendo inoltre un cambiamento di concezione da parte delle grandi imprese. Questi processi multilaterali erano finora appannaggio dei governi, mentre tutti gli altri portatori di interessi ne erano esclusi. La nuova bozza parla di inclusività, trasparenza e partecipazione e prevede che tutti i portatori d’interesse facciano la loro parte. Ricordiamoci che le grandi imprese sono importanti, senza di loro non possiamo pensare di dimezzare le emissioni entro il 2030. Per ottenere risultati significativi nei negoziati internazionali c’è bisogno di un clima collaborativo e di partecipazione agli impegni. I Paesi sviluppati devono trasferire finanziamenti, tecnologie e know how ai Paesi poveri per aiutarli ad adattarsi agli eventi estremi del climate change, per aiutarli a gestire bene le risorse della natura, realizzando per esempio un’area protetta”.
Quale può essere la strategicità dell’ambiente in processo di pace?
“Si potrebbe creare una cerniera tra i movimenti pacifisti e la comunità scientifica, per rendere più forte il messaggio dell’azione scientifica e la consapevolezza tra i cittadini”.