“Noi adulti dobbiamo testimoniare ai ragazzi il grido della vita. La difficoltà, la fatica, il dolore ci sono… ma non si devono trasformare in un’auto-punizione, come stanno facendo i giovani adesso, con la droga, la depressione, l’isolamento, il gioco d’azzardo. Il grido che c’è nel cuore è tutto rivolto contro se stessi, dentro se stessi! Non sappiamo più gridare alla vita, a Dio che ci abbracci, che ci venga incontro, che ci dia tutto ciò di cui ha bisogno il nostro cuore”. E’ il messaggio che Silvio Cattarina – fondatore e responsabile di una delle esperienze più belle e antiche di Comunione e Liberazione (CL) la comunità terapeutica ed educativa L’Imprevisto di Pesaro – lancia ai giovani in difficoltà e alle loro famiglie. Ma anche a quanti sono alla ricerca di qualcosa di bello, di grande, nella propria vita.
L’evento “Una passione per l’uomo”
Cattarina è stato ospite martedì scorso a Fabriano, presso l’oratorio Carlo Acutis della Parrocchia di San Nicolò, per l’evento-presentazione del Meeting di Rimini 2022 di CL, “Una passione per l’uomo”, con la moderazione di Carlo Cammoranesi, direttore del settimanale “L’Azione”, e il saluto del parroco don Aldo Buonaiuto. Non poteva mancare all’incontro il vescovo emerito di Fabriano-Matelica, mons. Giancarlo Vecerrica, tra gli eredi e amici di Don Giussani e fondatore del pellegrinaggio Macerata-Loreto.
A fianco di don Giussani: la vita di Silvio Cattarina
Silvio Cattarina nasce a Storo in Trentino il 3 gennaio 1954, dove trascorre i primi anni e dove spesso fa ritorno portando con sé la famiglia, i ragazzi delle Comunità e numerosi amici. Frequenta le scuole superiori a Pesaro, ospite del convitto Villa Marina. In questo periodo incontra Comunione e Liberazione (CL) e il suo fondatore, Don Luigi Giussani. Si laurea in Sociologia in Urbino nel 1979. Nel 1980 si sposa con Miriam con la quale avrà quattro figli.
Conosce Don Gaudiano ed inizia il lavoro di operatore presso la Comunità Terapeutica di Gradara dove si ferma per sette anni. Successivamente favorisce la nascita e dirige la Comunità Terapeutica di S. Carlo di Cesena.
Il 1 ottobre 1990, sempre con don Gaudiano, dà vita alla Comunità Terapeutica Educativa per minori devianti e tossicodipendenti. Nascono poi “L’Imprevisto”, il Centro Diurno, la Comunità Terapeutica femminile “Tingolo per tutti”, le Case di Reinserimento e la Cooperativa sociale “Più in Là”.
Nel frattempo, dopo aver conseguito anche il titolo di psicologo, organizza e partecipa come relatore, in Italia e all’estero, a diversi momenti di studio, seminari e congressi. I Centri e le Comunità lanciati da Silvio Cattarina costituiscono un’esperienza che ha qualcosa di unico e rappresentano un punto di riferimento ed un modello osservato e studiato per il suo rilevante interesse e per i suoi interessanti risultati.
L’intervista a Silvio Cattarina, fondatore de L’Imprevisto
Lei è fondatore e presidente della Cooperativa Sociale L’Imprevisto: di cosa si occupa?
“La Cooperativa Sociale L’Imprevisto risponde al bisogno educativo e terapeutico di ragazzi devianti e/o tossicodipendenti, minorenni e maggiorenni di entrambi i sessi. Il personale delle Comunità, formato da psicologi, sociologi ed educatori, cerca di offrire ai propri ospiti un ambiente di confronto che dia loro la possibilità di identificarsi con figure adulte e significative. I ragazzi sono accettati ed accolti in stretta collaborazione con i Servizi Sociali dei Comuni, delle Aziende Sanitarie Locali, con i Servizi Sociali del Ministero della Giustizia e con i Tribunali dei Minorenni. L’obiettivo che il percorso della vita in Comunità si prefigge è quello di educare ed accompagnare la persona a divenire consapevole del danno provocato alla sua stessa identità dalla pratica della tossicodipendenza o dall’esperienza deviante e di quanto ne sia responsabile; e a ricostruire la propria identità reale, ossia a ricostruire un’appropriata e non illusoria coscienza del proprio “io”, con tutte le conseguenti capacità di conoscenza, affezione, lavoro, sacrificio… importanti per il conseguimento di una matura autonomia da parte del soggetto”.
Qual è il senso di questo nome, L’Imprevisto, che evoca non solo sorpresa ma anche speranza?
“E’ in effetti proprio la speranza. Il nome è ripreso da una poesia di Eugenio Montale, intitolata ‘Prima del viaggio’ – dalla raccolta Satura – che si conclude con questi versi: ‘E ora che ne sarà/del mio viaggio?/ Troppo accuratamente l’ho studiato/senza saperne nulla. Un imprevisto/è la sola speranza. Ma mi dicono/che è una stoltezza dirselo'”.
Avrebbe mai pensato, da giovane, che avrebbe abbracciato questa missione e che l’avrebbe portata avanti in tutti questi anni?
“No, è capitato in modo fortuito, però avevo un grande desiderio in fondo al cuore. Vale a dire desideravo, a quel tempo, di ‘fare cose grandi’. Oggi, con gli anni, ho capito una cosa: non desideravo fare cose grandi, ma che cose grandi chiamassero me! Cioè che grandi persone, grandi maestri, mi dessero fiducia e mi educassero a cose belle, fuori dagli schemi”.
E’ stato dunque un imprevisto che si occupasse di dipendenze?
“Sì, è stato appunto un imprevisto. Felice. Mia madre, donna semplice, mi diceva sempre: ‘Silvio, devi avere un cuore grande. Tutto ciò che desideri lo avrai se avrai un cuore grande, non se pensi che sarà il frutto della tua capacità, del tuo sforzo o della tua intelligenza’. Lei, una donna senza istruzione, aveva capito il segreto della vita! Queste parole sono state un faro lungo tutta la mia strada e non le ho mai dimenticate”.
Come sintetizzerebbe la sua esperienza di vita coi ragazzi?
“Sono sempre stato con i tossici, sono cresciuto ed invecchiato con loro, non sono mai andato da nessun’altra parte. Ma, contro ogni apparenza, è più quello che ho ricevuto di quello che ho dato: mi hanno insegnato tutto loro, guai a chi me li porta via… sono essi L’Imprevisto della mia vita, una sovrabbondanza di grazia che ci viene incontro avvolgendoci di meraviglia. Anche il male e il dolore – in un certo senso – sono una sovrabbondanza, uno straripante bisogno d’amore. Nel dolore e nella sofferenza vive un mistero da guardare, di fronte al quale inginocchiarsi e chinare il capo”.
Quando ha conosciuto il movimento di CL e cosa ha provato la prima volta?
“Il mio primo incontro è avvenuto da ragazzo, alle superiori. A quel tempo ero un po’ ‘casinaro’, un po’ tribolato… Appartenevo all’estrema sinistra… Un giorno ho incontrato dei ragazzi che hanno iniziato ad affascinarmi. Loro si volevano bene, volevano bene alla realtà, erano entusiasti della vita. Questo mi ha colpito, mi ha attratto molto. Nel frattempo ho conosciuto anche Don Giussani”.
Che ricordo ha di don Giussani?
“Don Giussani ti faceva sempre intravedere cose grandi! Era il ‘fuoco’ di cui bruciava la sua persona! Questo è ciò che ci affascinava di lui. Poi non legava gli altri a sé, ma sempre a qualcosa di molto più grande di lui stesso.
Qual è l’eredità di don Giussani in un’epoca contrassegnata dall’imperversare dei social?
“L’opera di don Giussani è sempre attuale perché fa conoscere bene il cuore di ogni persona e i desideri che vi albergano dentro. Lui partiva dal suo cuore… e noi volevamo un cuore grande come il suo. Si capiva che era amico di Dio e parlava di Dio, ma comunque partiva dal nostro cuore, da tutto ciò che di grande, di bello, di utile è giusto desiderare nella vita. Partiva sempre dall’uomo, dalla persona”.
Che testimonianze ha portato all’incontro a Fabriano “Una passione per l’uomo”?
“All’Oratorio dedicato a Carlo Acutis hanno parlato due ragazze. Alessia, di 25 anni, che ha iniziato il percorso nel 2017. Ha subito il divorzio dei genitori a 5 anni. Stando un po’ con l’uno, un po’ con l’altra, si è creata pian piano una doppia vita. In terza media ha iniziato ad usare cannabis credendo che non fosse pericolosa. Pensava che grazie alle sostanze avrebbe colmato il vuoto che sentiva dentro. Ma così non è stato. A 19 anni ha conosciuto un uomo molto più grande di lei che l’ha indirizzata alla cocaina. E’ stato l’imprevisto negativo ma anche positivo della sua vita. Caduta nella dipendenza, ha incontrato un operatore del SERT che, ‘come un angelo caduto dal cielo’ – come racconta lei stessa – l’ha ascoltata e l’ha aiutata. E’ così entrata nella comunità L’Imprevisto dove ha intrapreso un cammino di recupero. Oggi ha ricostruito la propria vita e anche il rapporto coi genitori. Oggi è una donna libera! La seconda testimonianza è stata di Luana, una ragazza adottata che – per tale motivo – si è sempre sentita ‘da poco’ rispetto ai suoi coetanei. Crescendo ha tentato di zittire il dolore con la droga, un errore che fanno tanti ragazzi, e ha intrecciato rapporti sbagliati con persone tossicodipendenti, rimanendo incinta. Un giorno si è drogata con un suo amico, ma lui è andato in overdose ed è morto. E’ stato il giorno in cui ha capito che se non usciva dal tunnel, sarebbe morta anche lei. Così nel 2019 è entrata nella comunità di Pesaro. All’inizio è difficile per tutti fidarsi di nuovo di qualcuno, ma il bene che trasmettiamo a questi ragazzi li aiuta a perdonarsi, a non sentirsi giudicati, a sentirsi amati”.
Cosa possono insegnare queste testimonianze?
“Le testimonianze di vita dei miei ragazzi fanno capire questo: innanzitutto, la dipendenza non è un problema di psiche, di comportamento o di essere adeguati nella vita. È un problema educativo nel senso vero della parola. I ragazzi, ma anche noi adulti, non conosciamo più il grande valore di ogni persona, della vita, della realtà. Non sappiamo più perché stare al mondo! È questa la grande questione di partenza! Don Giussani partiva sempre dal perché stiamo al mondo. Se non conosciamo più questi valori tutto diventa inutile, vuoto, dolore, noia, sconfitta… Se ci aiutiamo a capire il valore della vita, tutto riparte! L’isolamento e il distanziamento non sono stati creati dal Covid, ma è da molto tempo che ci sono. Così come la depressione, la passività dei giovani. Il Covid e la guerra (con tutta l’atrocità e la cattiveria che sta venendo fuori tra fratelli) hanno portato alle estreme conseguenze questa situazione”.
Come aiutare dunque questi ragazzi?
“Noi adulti dobbiamo testimoniare ai ragazzi il grido della vita. La difficoltà, la fatica, il dolore ci sono ma non si devono trasformare in un’auto-punizione, come stanno facendo i giovani adesso, con la droga, la depressione, l’isolamento, il gioco d’azzardo. Il grido che c’è nel cuore è tutto rivolto contro se stessi, dentro se stessi! Non sappiamo più gridare alla vita, a Dio che ci abbracci, che ci venga incontro, che ci dia tutto ciò di cui ha bisogno il nostro cuore. I miei ragazzi mi chiedono: “Quanto ci vuoi bene, Silvio?”. Rispondo loro: “Vi voglio bene, ma la cosa più importante non è quanto vi voglio bene io. È fondamentale che vi faccia vedere quanto grido alla vita, quanto grido a Dio. Tutto quello che abbiamo nel cuore bisogna saperlo gridare fuori, perché c’è chi lo ascolta! Il vero dramma non è la droga e il carcere, ma come tenete chiuso il vostro cuore!”.