Buco dell’ozono, da problema a lezione per il futuro

Dal grande dibattito di qualche decennio fa ai nuovi campi di studio: la conoscenza dell'ozonosfera resta fondamentale

Buco dell'ozono
Foto di Daniel Olah su Unsplash

La scoperta fu fatta a metà degli anni Settanta. Ma, per far sì che le voci in ambito scientifico avessero effetti nel concreto della vita comunitaria, bisognerà attendere i primi anni Novanta, quando il concetto di “buco nell’ozono” iniziò realmente a diventare d’uso comune. Anzi, per la verità bastò poco affinché ci si convincesse che l’assottigliamento dello strato allotropico di gas avesse ripercussioni immediate ed evidenti sulla vita di tutti i giorni. A cominciare dalla capacità dei raggi solari di colpire con più violenza e meno filtri attraverso l’atmosfera e, quindi, sulla crosta terrestre. Non servì molto tempo affinché l’espressione si inserisse nel parlare comune. Tanto che, di anno in anno, l’impatto emotivo del concetto finì per essere assorbito, diventando poco più che una componente del ben più ampio discorso sui mutamenti del clima terrestre. Non è un caso che l’ultimo atto di una certa rilevanza a riguarda risalga al 1987, quando il Protocollo di Montreal pose un pesante limite all’uso dei clorofluorocarburi (CFC), ritenuti dannosi per lo strato di ozono. Nel 1990, le strategie di contenimento sarebbero state adottate da oltre 90 Paesi.

Lo stato del buco nell’ozono

Da quel momento, e fin quando il feedback socio-culturale non andò pian piano a esaurirsi, il discorso si è ritrasferito in ambito scientifico. Anche perché, a ben vedere, la mossa di ridurre il rilascio in atmosfera dei CFC sembrava aver sortito gli effetti sperati, costringendo il “buco” ad agire a fasi alterne, allargandosi e richiudendosi a seconda dei periodi dell’anno. Persino in tempi recentissimi (2021) l’assottigliamento dello strato era ritenuto sotto controllo, mantenendo inalterata la sua presenza senza però sortire più preoccupazioni del passato, almeno nelle dimensioni.

Il nuovo campo di studio

Di fatto, l’attenzione della scienza si era ormai trasferita non sul raggio del buco nell’ozono ma sul suo perdurare nel tempo, ritenendo il suo periodo di “apertura” quello realmente da tenere d’occhio. Periodo che, negli ultimi tre anni, sembra durare più del previsto. O, quantomeno, più di quanto avvenuto nei decenni dal 2000 in avanti. In sostanza, a preoccupare gli esperti non è la reale dimensione del problema quanto la sua presenza effettiva. Il cui allungamento, chiaramente, potrebbe rappresentare una minaccia laddove la crosta terrestre è più esposta all’azione degli UV. In primis, la regione antartica.

Un legame sottile

Almeno, questo è quello che si ritiene volendo pensare al buco nell’ozono come a un tema di stretta attualità. Il punto, però, è che il provvedimento adottato a Montreal fu di fatto una strategia ad hoc, volta ad azzerare la fonte stessa che, in quel momento, causava il problema dell’assottigliamento dello stato di gas. E, in tal modo, i suoi effetti di schermo contro i raggi UV. A oggi, tale correlazione sembra meno “attuale”, o quantomeno scarsamente connessa ai cambiamenti climatici in atto, che chiamano in causa la sfera del consumo energetico. “Il legame tra il ‘buco’ e la crisi climatica, se c’è, è molto sottile – ha spiegato a Interris.it Antonello Provenzale, direttore del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) -. L’ozono è certamente un gas con effetto serra ma non c’entra con quanto avviene nello strato atmosferico al di sopra i poli. L’ozono si trova nella stratosfera e assorbe i raggi ultravioletti, proteggendo la Terra da agenti che sarebbero dannosi per cellule viventi. Diverso il discorso se dovesse trovarsi nella toposfera: in questo caso, agirebbe come un inquinante”.

Il vortice circumpolare

In questa fase, tuttavia, le cose stanno diversamente rispetto alla fine degli anni Ottanta, quando i protocolli di Montreal imposero misure drastiche per ridurre le possibilità di azione nociva degli UV: “Quello che è successo un po’ di decenni fa, è che alcune sostanze come i CFC, contenuti in alcuni materiali industriali, venivano portati verso i poli e, soprattutto d’inverno, reagivano con l’ozono distruggendolo. Da qui il cosiddetto ‘buco’, fermo restando le fluttuazioni naturali proprie del gas. Con dei provvedimenti specifici, i CFC sono stati vietati e il buco si è di fatto richiuso. In quel caso, però, si trattava di eliminare alcuni composti specifici. Per i cambiamenti climatici, invece, si tratta di cambiare l’uso delle fonti energetiche”. Più interessante, in questo senso, capire il funzionamento della circolazione atmosferica attorno ai poli: “In effetti sta cambiando e questo può realmente avere implicazioni sulla quantità di ozono. Ma, per la verità, può avere molte altre conseguenze. Il vortice circumpolare artico, infatti, agisce come un’onda attorno al polo. Quando questa è più intensa, porta aria calda verso i poli, oppure aria fredda verso le basse latitudini. In alcuni inverni sono capitate tempeste di gelo negli Stati Uniti, mentre in Scandinavia si svegliavano gli orsi dal letargo”. Un altro campo di studio decisamente interessante.