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Brexit e Covid, i test per l’Europa che verrà

Il Regno Unito non dilazionerà la scadenza d'uscita, mentre l'Europa fa settant'anni di fronte alla crisi economica portata dalla tragedia del virus. Pezzulli (Italia Atlantica): "Tre nodi fondamentali, ma Londra ha una strategia"

E’ un anniversario particolare il 70esimo della Dichiarazione di Schuman. Una di quelle ricorrenze che, in altri tempi, sarebbe stata accolta non solo con garbo istituzionale, ma anche con l’onorificenza che si confà a un appuntamento fondante per la storia dell’Europa. Fu così tre anni fa, in occasione dei sessant’anni dei Trattati di Roma, di certo non potrà esserlo per “le nozze di titanio” del discorso di Parigi che, di fatto, gettò le basi per la costruzione della futura organizzazione internazionale. Il coronavirus ha rimescolato il mazzo della Comunità del 2020, chiamando l’Unione di oggi a una sfida per certi versi simile a quella che i padri fondatori si ritrovarono ad affrontare all’indomani del Secondo conflitto mondiale. Una prova definitiva di unità per qualcuno, un colpo violento a quello che finora è stato l’assetto continentale per altri… Di sicuro uno scoglio imprevisto, di portata epocale, realmente in grado sia di testare la resistenza di un’Europa a cui in molti chiedono un rinnovamento, sia di spazzarne via gli ultimi baluardi. Costringendo davvero a una ripianificazione degli assetti generali.

Prova del nove

L’emergenza Covid-19 il suo segno lo lascerà. Resterà da capire, quando la marea sarà passata, su quale corpo resteranno le cicatrici. Un dubbio che, in qualche modo, non viene sollevato solo dalla crisi che ha colpito le principali economie europee, ma anche in virtù di quei dossier che, coronavirus o no, l’attuale Stato generale di Bruxelles dovrà portare a termine. E dalle quali sarà possibile misurare la reale contaminazione del colpo Covid sugli assetti del Vecchio Continente che verrà fuori dalla crisi. Chissà che una delle prove più probanti non sia proprio la vicenda Brexit che, da argomento principe fino a qualche mese fa, è passata silenziosamente all’essere uno dei fantasmi coi quali l’Unione si troverà a fare i conti. Una scadenza regolare per l’addio del Regno Unito al tavolo dei 28 già 27 (31 dicembre 2020), una trattativa intavolata e nessuna intenzione, da parte dei contraenti, di proseguire oltre con questa storia. Dirottando la domanda, a questo punto, al capire quale dei due convitati ne uscirà con meno acciacchi.

L’uomo della Brexit

Il coronavirus non ha risparmiato il Regno Unito, terzo Paese per numero di contagi a livello globale, primo a raggiungere i 30 mila decessi e ad avere il proprio leader politico colpito in modo serio tanto che, per ammissione dello stesso Johnson, Oltremanica erano già stati organizzati piani di emergenza qualora il virus avesse avuto la meglio su di lui. Uno scenario estremo e che nessuno davvero si sarebbe mai augurato. Non solo sul naturale piano umano, ma anche per il mandato che, di fatto quasi all’unanimità, i cittadini britannici avevano consegnato nelle mani del premier, quello di tirar fuori il Paese a tutti i costi dal pantano Brexit. Un compito che, ora come ora, nessuno potrebbe svolgere al suo posto. D’accordo o meno con la sua politica, Johnson ha di fatto ricevuto dal Regno Unito il compito di risolvere la questione, sciogliendo gli ultimi nodi e facendo sì che, il prossimo anno, l’Union Jack non sventoli più ai piedi di Palazzo Berlaymont. Solo Johnson, il cui accordo è stato approvato (dopo che Theresa May se n’era visti bocciare tre) e la cui politica è riuscita a convincere sia i Tory che i cittadini di sua Maestà: non Dominic Raab quindi, che lo aveva sostituito solo de facto durante la convalescenza, ma privo sia dei poteri che della possibilità materiale di arrivare a dama senza il premier; e nemmeno un altro schieramento politico che, in caso di patatrac, avrebbe quasi certamente (ri)chiesto il parere dei britannici, senza nessuna garanzia (anzi, con possibilità quasi azzerate) che la Brexit trionfasse nuovamente.

Economie a confronto

Certo, la Gran Bretagna non ha tutto in tasca. La tragedia del coronavirus ha forse distolto l’attenzione mediatica (e ci mancherebbe) da una vicenda che, volenti o nolenti, sarà il primo, vero banco di prova per l’Europa del dopo-Covid. E, anche qualora il “durante” decidesse di proseguire a oltranza, per paradosso questo non influenzerebbe una trattativa che, in qualche modo, Londra e Bruxelles dovranno far arrivare in porto: “Il Regno Unito – ha spiegato a Interris.it Bepi Pezzulli, direttore di Italia Atlantica – ha detto chiaramente che il periodo transitorio non verrà esteso. Quindi, il 31 dicembre, l’UK sarà finalmente fuori dall’Unione europea. E questo è un dato importantissimo perché il coronavirus ha certificato la necessità di divincolarsi della regolamentazione europea. Da un punto di vista economico, ogni possibile effetto negativo dell’uscita è stato più che attenuato dalla crisi globale. E soprattutto, la moderna economia dei servizi britannica, è capace di uscirne più rapidamente dell’economia più tradizionale dell’eurozona”.

Tre criticità

Se sul quando non si scappa (salvo cambiamenti che avrebbero del clamoroso), sul come qualche nodo da sciogliere ancora c’è: “Ci sono due negoziati paralleli, quello con gli Stati Uniti per un accordo di libero scambio e quello con l’Unione europea per le relazioni commerciali future. Quest’ultimo sembra meno prioritario, soprattutto dopo le domande del negoziatore Barnier”. E non manca qualche problematica da risolvere: “Innanzitutto l’accesso alle acque di pesca britanniche, che l’Ue insiste nel richiedere che resti libero. Il che sarebbe ecologicamente disastroso, non in linea con lo sforzo globale della Gran Bretagna sulla sostenibilità ambientale; poi la richiesta europea di avere una mini-ambasciata, una base tecnica, a Belfast, con l’obiettivo di sorvegliare il confine tra le due Irlande, richiesta anche questa rispedita al mittente; terzo, il famoso allineamento regolamentare, il level playing field, riportato in maniera molto faziosa e argomentativa. Il punto è che se ci dev’essere un accordo sulla convergenza regolamentare, deve andare nei due sensi. Anche l’Europa deve abituarsi a un eventuale inasprimento regolamentare di Londra, invece l’Europa cerca un accordo a senso unico”.

A un passo dall’elettorato

Punti che, anche nel recente passato, non hanno mancato di creare i primi focolai di crisi, specie la questione delle acque di pesca. Un tema che, per certi versi, rischia addirittura di mostrarsi più spinoso, sul piano pratico, della risoluzione dei punti ancora controversi sul confine irlandese: “Come la tragedia del coronavirus ha mostrato, l’Europa non è capace di gestire una crisi ed elaborare una risposta economica unitaria. Al contrario l’Inghilterra, avendo avuto mano libera su aiuti di Stato e stampa di moneta, ha tutti gli incentivi per essere più risoluta nella Brexit”. Il che, in qualche modo, conferma le posizioni che, prima dello tsunami coronavirus, vedevano la Gran Bretagna in un’ottica di maggior forza: “C’è un’altra cosa significativa: il Covid è stato devastante e ha colpito duro la Gran Bretagna, che si è messa però alla testa dell’iniziativa globale per i vaccini. Ha donato prima 388 milioni di sterline all’Alleanza mondiale dei Vaccini e altri 250 milioni al Cepi, che sta sviluppando il vaccino specifico contro il virus. Sono risposte immediate e molto vicine all’elettorato. Avendo recuperato questa libertà di agire come Nazione, tutto il caso Brexit si è molto rafforzato”.

Il primo dopo-Brexit

In sostanza, dalla risoluzione dell’affaire Brexit non si determinerà solo quale Regno Unito uscirà dai dettami delle regolamentazioni continentali ma, soprattutto, con quale Europa si ritroverà ad avere a che fare. Un’economia sganciata, come quella anglosassone, che dovrà vedersela internamente con i postumi del Covid, mentre una comunitaria, come quella europea, che dovrà fornire risposte su larga scala. Uno scenario al quale i britannici sembra si stiano preparando con una strategia economica precisa: “C’è quella del Cancelliere dello Sacchiere, Rishi Sunak, che si divide sostanzialmente in due: il pezzo breve, che lui stesso ha definito non sostenibile – se non in un periodo limitato -, quello dell’helicopter money, l’aiuto diretto al lato consumi e investimenti; affascinante, invece, il progetto a lungo, una strategia che può da un lato sostenere l’industria dei servizi finanziari, dall’altro l’industria del manifatturiero avanzato con robotica e intelligenza artificiale. La strategia per il futuro è quindi quella di focalizzarsi su tecnologia e creatività, a sostegno delle due industrie strategiche. Davanti a confusione generale in Italia e in Europa, questa è una strategia estremamente direzionale, pur non condivisibile”. In pratica, nonostante la tragedia in corso, Oltremanica sembra già dopo-Covid. E in qualche modo, anche dopo-Brexit.

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