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Benini: “Qual è lo scopo delle cure palliative pediatriche”

Solo un quarto dei pazienti eleggibili per le cure palliative pediatriche riesce ad accedervi. E' quanto emerge dallo studio “Palliped 2022-2023”, finanziato con il contributo non condizionato della Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio, condotto dalla prof.ssa Franca Benini. L’esperta ne ha parlato a Interris.it

Nell'immagine: a sinistra foto di Aditya Romansa su Unsplash, a destra la professoressa Franca Benini (per gentile concessione)

Il diritto alla salute dei piccoli pazienti affetti da malattie inguaribili è solo parzialmente garantito. A quindici anni dalla promulgazione della legge 38 sull’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, i ritardi sulla loro diffusione e la carenza di personale si riflettono anche sul numero di chi accede alle cure palliative pediatriche. Sono infatti circa 10.600 i bambini che hanno diritto di ricevere cure palliative pediatriche specialistiche, ma vi riesce solo il 26%, poco più di 2.700. Uno su quattro. Nonostante questo, si tratta di un dato migliore rispetto al 2019, quando i piccoli pazienti seguiti erano 1.209. E’ quanto emerge da “Cure palliative pediatriche specialistiche in Italia: dove stiamo andando? Lo studio “Palliped 2022-2023” finanziato con il contributo non condizionato della Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio, associazione impegnata in questo campo da oltre vent’anni, e condotto dalla prof.ssa Franca Benini, direttrice scientifica della Fondazione e docente in Pediatria presso il Dipartimento di Salute donna-bambino dell’Università di Padova e Responsabile del Centro regionale Veneto di Terapia del Dolore e Cure Palliative Pediatriche.

Alcuni dati: progressi e criticità

Il rapporto, pubblicato sulla Rivista italiana di pediatria, documenta l’aumento di piccoli pazienti presi in carico nel triennio in esame, dal 15% del 2021 al 26% del 2023, e dei centri di riferimento regionale che coprono l’intero territorio, saliti a sette (+23%) sui 13 totali. I centri e le strutture specializzati, presenti in 14 Regioni e le due Province autonome di Trento e Bolzano, sono 18, di cui 15 fanno parte del Sistema sanitario nazionale. Tre offrono un servizio 24 ore al giorno tutta la settimana, in calo rispetto al 2021, e dieci hanno un team dedicato a questa tipologia di pazienti. La copertura territoriale risulta ancora non omogenea e il personale complessivo è insufficiente a garantire i servizi, essendo composto da 60 medici e 140 infermieri specializzati.

L’intervista

La responsabile dello studio, l’esperta Franca Benini, ha commentato a Interris.it i contenuti della ricerca e illustrato quali sono i passi avanti necessari per garantire l’accesso equo alle cure palliative pediatriche.

Cosa ci dicono i numeri del rapporto?

“Questo mondo è cambiato in meglio negli ultimi anni, ma ancora solo uno su quattro degli eleggibili accede alle cure palliative pediatriche. Il bicchiere è mezzo pieno, ma se valutiamo la metà vuota vediamo che la risposta è ancora non adeguata. Dobbiamo creare modello di reperibilità degli esperti h24 e far vivere i pazienti fuori dalle strutture”.

Quale è lo scopo delle cure palliative pediatriche?

“L’obiettivo è ottimizzare la qualità della vita nel decorso della malattia. La maggioranza dei pazienti ha patologie che non guariscono, per cui occorre trovare la strategia, la terapia e le modalità assistenziali che consentano paziente di vivere nel modo migliore possibile”.

Cosa significa per un neonato, un bambino o un adolescente affrontare un’esperienza del genere?

“Ogni paziente ha la sua caratterizzazione per cui cambiano i parametri di definizione degli strumenti da utilizzare, la comunicazione e l’esperienza che permette di prendere decisioni. Ciascuno, al di là dell’età, ha il suo modo di farci capire cosa pensa e cosa vuole. Dobbiamo tenerne conto e partire da qui per garantire la sua qualità della vita”

Che tipi di trattamenti sono previsti?

“Non c’è uno standard. Si parte dal controllo dei sintomi e dalla valutazione dei bisogni del paziente dal punto psicologico, relazionale – perché va comunque inserito in un contesto di socialità e di comunicazione – e anche spirituale, dato che sia bambini che ragazzi chiedono il ‘perché’ di certe cose. Dopo questa analisi si valuta cosa fare e si cerca di realizzare una terapia ad hoc. I trattamenti sono erogati principalmente a domicilio perché il bambino malato vuole stare a casa, anche i genitori. Ci sono anche strutture ad alta intensità assistenziale, gli hospice pediatrici – differenti da quelli per gli adulti – realizzate come case dove si tengono i pazienti per brevi periodi, tra i 5 e i 7-10 giorni”.

Come dare supporto e sostegno ai famigliari?

“Poiché si entra in un contesto molto intimo, bisogna farlo in punta di piedi e creare una partnership con i genitori del paziente, dato che è un momento spartiacque nella loro vita. E’ fondamentale che gli operatori siano costantemente reperibili per rispondere a qualsiasi tipologia di problema clinico, sociale, biologico, spirituale, bioetico”

Dallo studio emerge una copertura territoriale disomogenea. L’accessibilità è legata al luogo dove si vive? Anche in questo ambito le famiglie sono costrette a spostarsi per le terapie?

“Le disomogeneità riguardano sia i tipi di patologie che le aree di residenza e non ultimo le età. Oltre il 90% dei pazienti eleggibili per le cure sono non oncologici ma fanno più fatica ad accedervi. Le strutture e i centri con una presa in carico dei pazienti 24/7 con un team dedicato sono maggiormente concentrati nel Nord Italia soprattutto, Nord-Est. Bisogna riuscire a dare a livello locale le risposte ai bisogni famiglie, queste ultime non dovrebbero essere costrette a sradicarsi per vedersi riconosciuto un diritto. In ultimo, capita che i bambini più piccoli siano segnalati in prossimità della fine, quando non è il momento più adatto per attivare questo percorso.”

Quali passi avanti ci sono ancora da fare?

“Uno è culturale. Oggi i bambini devono rispettare una certa omologazione e la loro condizione in queste situazioni non interessa molto. Inoltre, la non guaribilità e la morte di un bambino, è ritenuta inaccettabile. C’è poi una carenza estrema di formazione di professionisti, si prediligono altri ambiti della medicina pediatrica. Solo in questi due ultimi anni si comincia a parlarne ma ci vorrà tempo per costruire un ambito professionale in grado di dare risposte. Se vogliamo garantire la qualità della vita dei pazienti dobbiamo organizzare le cure facendo lo sforzo di portare l’altissima professionalità degli esperti a domicilio, ventiquattrore al giorno, tutti i giorni della settimana. In ultimo, non sembra essere una priorità: i bambini, in numeri assoluti, per fortuna sono pochi rispetto ad altri bisogni. Ma di loro non se ne parla o lo si fa in maniera sbagliata, tra pregiudizi e tendenza a evitare i problemi. C’è un processo culturale che deve crescere attraverso formazione e informazione”.

Qual è messaggio del cambiamento culturale necessario?

“Oggi la salute è spesso relegata all’ambito clinico, ma il diritto principale è avere la migliore salute possibile, sotto i profili biologici, psicologici e sociali, al di là della durata della vita del paziente”.

“Prendersi cura del malato è innanzitutto cura delle sue relazioni”, ha detto papa Francesco. Come farlo in questi casi?

“Noi cresciamo a contatto con gli altri. Le cure palliative pediatriche escono dalla sola sfera clinica perché sono un percorso fatto di competenze diverse che richiede uno sforzo organizzativo non indifferente ma consente di reinserirli in un contesto sociale anche quando sono molto piccoli”.

Il loro diritto all’istruzione è garantito?

“Non è facile gestire un bambino legato alle macchine per vivere in un contesto scolastico, ma è importante per la sua qualità della vita. C’è buona volontà sia del sistema organizzativo, pur con risorse molto ristrette, che da parte delle famiglie”.

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