Mentre l’Occidente è in lotta con la pandemia da Covid-19 e piange le centinaia di migliaia di morti causate dal virus in oltre un anno, fuori dai confini del Vecchio Continente, a metà strada con l’Asia, c’è chi conduce una lotta molto più lunga, ma con sempre minori risorse e minore attenzione da parte dell’opinione pubblica internazionale.
Risale al 20 maggio la pubblicazione del rapporto annuale Internal Displacement Monitoring Center dell’organizzazione umanitaria indipendente Norwegian Refugee Council. Il monitoraggio dei flussi migratori relativi agli sfollati interni ci rivela una verità impressionante e scomoda: nel solo 2020 40,5 milioni di persone hanno abbandonato la loro abitazione per spostarsi all’interno del loro Paese, a causa di violenze, conflitti o calamità naturali. Un incremento monstre che porta la cifra complessiva degli Idp (Internally Displaced People) a 55 milioni.
Molte di queste persone, spesso minori non accompagnati, che hanno vissuto profondi traumi legati al cambiamento della loro vita, a ciò che hanno subìto e alle spesso precarie condizioni alimentari, igienico-sanitarie, logistiche e di sicurezza in cui trovano a vivere, riparano nei campi spesso realizzati da organizzazioni non governative che portano loro assistenza umanitaria, almeno per i bisogni essenziali, educazione e supporto psicologico.
Una di queste ong è Terre des Hommes International Federation, di cui fa parte Fondazione Terre des Hommes Italia. Nata nel 1960, l’organizzazione si trova attualmente in 67 paesi con 816 progetti dedicati ai bambini, a cui assicura scuola, educazione informale, cure mediche, cibo e protezione. Terre des Hommes è presente in Iraq dal 2003 per aiutare le vittime dei conflitti e delle crisi che si sono susseguite nel Paese e dal 2011 assiste i rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile.
Proprio in alcuni di quei campi dove TdH porta assistenza, la fotodocumentarista e videomaker italiana Sara Melotti ha realizzato il videoreportage Children of the Camps, i bambini dei campi, dove mostra la vita e le condizioni di giovani e giovanissimi nei campi del Kurdistan iracheno. La loro casa adesso è una tenda senza elettricità, dove non trovano riparo dal freddo dell’inverno. La casa, luogo sicuro di riparo e di affetti, è qualcosa che non appartiene più al loro presente, spazzata via dalla guerra o dalla miseria.
InTerris ha parlato con Melotti della sua visita dei campi di Harsham, dove si trovano sfollati iracheni dal sud dell’Iraq fuggiti dalle milizie del sedicente Stato islamico, di Pebaga, dove si tengono corsi di educazione informale, e di Qushtapa.
La diaspora (interna) irachena
La storia recente dell’Iraq è segnata da quattro fasi. Gli anni del regime di Saddam Hussein, noti per la Guerra del Golfo nel 1991. L’intervento della coalizione a guida statunitense nel 2003, due anni dopo l’inizio delle ostilità in Afghanistan in risposta all’attentato terroristico dell’11 settembre. Le tensioni e le violenze tra il 2006 e il 2008, per la successione di Saddam, condannato a morte per crimini contro l’umanità da un tribunale speciale. Infine l’ascesa del sedicente Stato islamico e le operazioni militari per contrastarlo. Persecuzioni, guerre e violenze flagellano da decenni il Paese, che attualmente vive una situazione di fragile pace.
Secondo Internal Displacement Monitoring Center, al 31 dicembre 2020 il numero totale di sfollati interni nel Paese è di 1,24 milioni, un aumento di quasi 70mila unità nel 2020. Per l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), il 71% degli sfollati interni ha trovato rifugio nella Regione Autonoma del Kurdistan iracheno, nata nel 1992, dove attualmente il 25% della popolazione è formato da sfollati, tra cui anche migliaia di profughi siriani.
Per l’agenzia Onu, queste persone necessitano di supporto legale e psicologico, tende, denaro, acqua, cibo, educazione, servizi sanitari. Oltre ai bisogni materiali, hanno bisogno di aiuto, soprattutto i minori (specie quelli non accompagnati), e di contrasto alla sfruttamento sessuale, ma anche di essere seguite nella pratica di riunificazione delle famiglie e nel rientro a casa, che deve essere sempre volontario e deve avvenire in condizioni di sicurezza.
Non è infatti scontato che il ritorno sia la scelta migliore o più sicura per gli Idp, che spesso sono sfollati da oltre tre anni. Il governo iracheno ha adottato una politica per il rientro degli sfollati interni nelle loro case alla fine di 2020, in parallelo con la chiusura di dieci campi profughi, ma il rientro è spesso impossibile perché molte aree non sono sicure e mancano dei servizi di base, rischiando così di rendere ancora più precarie le condizioni di vita di questa persone.
La Siria
La Primavera araba del 2010-2011, i moti di protesta contro la corruzione dei regimi, le violazioni dei diritti civili e la povertà e la disoccupazione, si è trasformata presto in un autunno e poi in un inverno. In Siria, dove il partito al governo era al potere ininterrottamente dal 1963, le manifestazioni di piazza sono state represse con la violenza e arresti di massa, fino a deflagrare nella guerra civile nell’estate del 2011. Quel conflitto ha visto l’intervento di forze straniere come Stati Uniti, Russia e Turchia e si è intrecciato con la guerra all’Isis. Dopo una serie di operazioni militari portate avanti dal capo di Stato turco Recep Erdogan, per evitare la nascita di un’enclave curda nel nord della Siria, nel marzo 2020 Turchia e Russia hanno raggiunto il cessate il fuoco.
La situazione attuale in Siria, dove il presidente Bashar Al Assad ha ricevuto per la quarta volta il mandato presidenziale con una maggioranza schiacciante nelle elezioni dello scorso 26 maggio, è quella di una guerra a bassa intensità, scrive l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). Ma se attualmente il conflitto esige tributo di sangue più contenuto, la crisi economica e l’inflazione infieriscono su un paese diviso e distrutto, dove nove milioni di persone versano in condizioni di insicurezza alimentare e tre milioni di persone hanno bisogno di soccorso umanitario, perché non in grado di far fronte ai propri bisogni di base. Stime risalenti al 2019 dicono che l’83% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. E in dieci anni il cambio tra la lira siriana e il dollaro statunitense è cresciuto esponenzialmente da 47 lire per dollaro a 2.512 per dollaro.
Un triste primato
Un terzo della popolazione siriana ha dovuto abbandonare la propria casa e cercare riparo altrove, sul territorio. In base ai dati dell’Internal Displacement Monitoring Center, al 31 dicembre 2020 la Siria è il paese con il più alto numero al mondo di sfollati interni: 6,5 milioni. Un notevole incremento si è registrato nel solo 2020, con un aumento di 1,8 milioni di Idp. Principalmente dovuto allo “sgombero” di 960mila persone in seguito a un’offensiva delle forze governative nel governatorato di Idlib, area ritenuta l’ultima roccaforte degli oppositori del governo di Assad.
Le dinamiche degli spostamenti interni, c’è scritto nel rapporto International Displacement Monitoring Center, sono influenzate dai legami familiari, dall’affiliazione etnica o religiosa. Ma anche dal controllo territoriale, oltre che dalla chiusura dei confini con la Turchia e con la Giordania – che ha reso molto meno praticabile cercare rifugio all’estero.
La diaspora siriana
I profughi siriani nel mondo sono cinque milioni e mezzo, al 2020, secondo stime dell’Unhcr. La maggior parte di loro ha riparato in Medio Oriente: 3,6 milioni hanno trovato accoglienza in Turchia. I migranti siriani in territorio iracheno sarebbero invece 245mila, riporta la Sezione Migranti e Rifugiati del Vaticano, e si sono stabiliti prevalentemente nelle aree urbane. Circa la metà è a Erbil, la capitale della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno. Molti giovani e adolescenti, spesso non accompagnati.
E proprio in questa regione, nel marzo 2021, si è recata Sara Melotti con Terre des Hommes e con il materiale raccolto durante le interviste ha realizzato Children of the Camps. La sua esperienza a contatto con diverse realtà in giro per il mondo in cerca di risposte nuove a domande universali, le ha consentito di raccontare con delicatezza e il giusto senso della realtà la vita nei campi. E dei suoi viaggi, della sua vita, delle sue scelte controcorrente racconta in prima persona nel suo libro La felicità è una scelta (Piemme), pubblicato lo scorso 25 maggio.
Come e quando è nato questo progetto con Terre des Hommes?
È nato un po’ all’ultimo minuto, lo scorso febbraio. Mi interrogavo da tanto su chi fossero i rifugiati e sul concetto di casa, essendo stata io un po’ nomade nel corso della mia vita. A febbraio ho visto che si poteva andare nel Kurdistan iracheno, dopo un lungo periodo in cui non poteva viaggiare per via del Covid, così ho contattato Terre des Hommes per andarci.
Cos’hai provato quando hai messo piede lì?
Il Kurdistan iracheno è stato toccato solo marginalmente dall’Isis, a differenza del resto del Paese. Quello che ho visto era diverso da quello che mi aspettavo. Ho trovato Erbil una città moderna, benestante, un po’ occidentalizzata.
I campi, quelli dove si trovano i rifugiati siriani sono quasi delle città vere e proprie, con costruzioni in cemento. Quello che mi ha colpito è l’unico campo tendato, Hasansham, uno degli ultimi realizzati. Lì le condizioni di vita sono più dure, le strade si allagano, le tende non proteggono molto né dal freddo né dal caldo e in un settore del campo, che chiamano U-3, mancava l’elettricità da ben 55 giorni. Sono stati lì a marzo, quindi il problema era presente da gennaio, quando era inverno.
Nel tuo reportage mostri storie con dei vissuti molto dolorosi, dando immagine e voce agli adolescenti e ai segni invisibili della guerra che si portano dentro
Quando si intraprende un viaggio del genere lo fa si sempre con un’idea in mente. Ero partita con l’intenzione di affrontare il concetto di casa con dei bambini che sono stati costretti a lasciare la loro. I bambini più piccoli quasi non se la ricordano nemmeno più la casa, ma con gli adolescenti il discorso è differente. Loro ricordano com’era la vita prima e stare nel campo gli è difficilissimo. L’impatto che ho avuto è stato molto forte, provavo di frustrazione nel vedere che non potevo fare nulla per aiutarli, nelle condizioni in cui si trovano.
Quali sono i loro principali bisogni?
Una cosa di cui sono venuta a conoscenza lì è che molti non possono tornare a ricevere un’istruzione per questioni legate principalmente alla burocrazia. Sono in molti ad aver perso i documenti nel corso dei conflitti o della fuga. Altri invece, che hanno lasciato la scuola da bambini, non possono tornarci perché una volta diventati più grandi non si possono riscrivere alla classe che frequentavano quando hanno interrotto. Finiscono per essere imprigionati in questa burocrazia e non possono prendere il diploma, compromettendosi così il futuro. È questo il problema più grande.
Ho trascorso un paio di giorni con una ragazza, Jamila, che mi ha raccontato che quando aveva 10 anni l’Isis è arrivato nel suo villaggio e le ha proibito di andare a scuola. Poi è dovuta fuggire, prima nel campo di Jedda, nel sud dell’Iraq, e ora è ad Hasansham. Non può tornare a scuola e prova un grande dolore e una grande rabbia. “Non è vita questa”, mi ha detto. Inoltre le ragazze restano di più dentro le tende, escono di meno a giocare. Mi ha raccontato che a Jedda le condizioni erano persino peggiori. Qui almeno ha uno spazio davanti alla tenda e può stare un po’ all’aria aperta.
I giovani che vivono nei campi come cercano di elaborare ciò hanno vissuto e stanno passando?
C’è un ragazzo di 17 anni, che vive nel campo di Hasansham, che ha visto uccidere suo padre dagli uomini dell’Isis e ha assistito a diverse decapitazioni. Si chiama Abderrahman e, col peso di essere testimone di tali atrocità e di dover fare lui, così giovane, il capofamiglia, scrive poesie. Scrivere è la sua ancora di salvezza, tramite le poesie elabora il suo vissuto. Lo vedi che è un ragazzino con una marcia in più, ha il quid dell’artista. Nonostante questo, ha tentato molte volte a togliersi la vita.
Ti ha parlato di suo padre e del rapporto che aveva con lui?
Quando lo faceva gli si illuminavano gli occhi, era la sua guida. Quando gli chiesto cose avrebbe chiesto se gli fosse stata l’opportunità di esprimere un desiderio che si realizzasse, ha risposto che vorrebbe che suo padre tornasse in vita.
Come sono le condizioni di vita nei campi?
Quelli costruiti per primi sono in condizioni migliori, mentre i più recenti veramente pessime. Le strade si allagano, tante tende sono senza bagno e usano generatori di elettricità, ma ci sono settori in cui la corrente manca da settimane e quando fa freddo non hanno modo di scaldarsi, né di avere refrigerio quando d’estate le temperature salgono fino a 50 gradi.
Ora che l’Iraq non è più un caso mediatico, un po’ tutti si sono dimenticati di chi vive nei campi. Le donazioni sono diminuite, i fondi arrivano soltanto dalle organizzazioni non governative e le risorse scarseggiano.
Come si integrano centinaia di migliaia di persone di etnie diverse, tra gli sfollati interni e i rifugiati?
I campi sempre separati, i rifugiati siriani con la protezione e gli sfollati interni iracheni non stanno mai insieme. Sono comunità che devono coesistere, lì ho incontrato di tutto: siriani cristiani, siriani curdi, iracheni di Mosul e da zone del Paese colpite dall’Isis. Il governo iracheno cerca di far chiudere tutti i campi per sfollati interni in Iraq, mentre la situazione diversa per i siriani che sono rifugiati con la protezione.
Come riesci a raccogliere le testimonianze delle persone che vivono in zone del mondo “difficili”?
Prima di tirar fuori macchina fotografica, cerco di parlarci e di farle abituare alla mia presenza. Voglio che capiscano che sono lì se posso dar loro qualcosa. Parliamo, magari beviamo un tè. Gli racconto quello che faccio e gli spiego che idea ho in mente. In quelle situazioni sei immerso nella storia e cerchi più informazioni, tanto che a volte non hai l’immagine completa finché non hai tempo di rielaborare tutto per capire ciò che vuoi raccontare.
Che segno ha lasciato su di te questa esperienza?
Emotivamente è stato un viaggio impegnativo, perché mi sono resa conto della mia impotenza di fronte all’ingiustizia che vivono questi ragazzini. Io so che non posso salvare il mondo, ma so che almeno posso raccontarlo.
Viaggiare per il mondo è raccontarlo e ciò fai da alcuni anni. In precedenza, hai lavorato come fotografa nel mondo della moda, negli Stati Uniti. Poi, la svolta quando hai intrapreso il tuo nuovo cammino lavorativo e personale con il progetto Quest for Beauty. Cos’è scattato in te?
Ho vissuto una crisi di coscienza, ho iniziato a sentire la differenza tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Ci sono stati tanti fattori, come le lamentele delle mie amiche per il proprio corpo. Cose pesanti, che iniziavo a vedere anche su di me. Col tempo, ho capito che il mio lavoro in quel settore costruiva standard di bellezza irreali e irraggiungibili che ci fanno soffrire, senza dimenticare poi il discorso dell’oggettivazione del corpo, una cosa che alimenta la disparità di genere. Voglio che il mio lavoro produca qualcosa di buono.
A che punto è la tua ricerca?
La ricerca è ancora in corso. Ogni quest parte dalla domanda “Cos’è la bellezza?”, che non è certo quella delle modelle. A tutte le donne, che mi trovi in Marocco, a Hong Kong, in Vietnam, a Cuba o altrove, faccio sempre le stesse cinque domande e mi ha sorpreso che nessuna donna parli mai dell’aspetto esteriore. Mi rispondono che la bellezza è la gentilezza, l’empatia, la fiducia della donna verso sé stessa. In India le donne più anziane ti rispondono che la bellezza è dio.
Recentemente è uscito il tuo libro La felicità è una scelta. Cosa ti ha spinto a scriverlo?
Ho un blog che si chiama Behind the Quest, e nella sezione Notes from the road scrivo flussi di coscienza molto personali. Ho un certo seguito su Instagram, e molta gente mi chiede come ho fatto ad arrivare dove sono. Magari si aspettano come risposta una formula magica, mentre ho avuto un percorso molto anomalo da quando ho lasciato l’Italia, a vent’anni. Così per rispondergli ho deciso di scrivere un libro.
Uno dei tuoi punti di riferimento è Tiziano Terzani, un giornalista che ha viaggiato molto in Cina, India e le repubbliche sovietiche nei giorni della dissoluzione dell’Urss, trent’anni fa. C’è qualche figura del mondo del giornalismo che ti ispira o a cui ti senti particolarmente vicina?
Ho un po’ di riserve su come si fa il giornalismo oggi, con il clickbait. Terzani è il mio esempio di giornalismo perché andava oltre il giornalismo, faceva fare pensieri diversi. Qualcosa di cui abbiamo bisogno. Chi mi ha spinto a voler conoscere il mondo è stato Anthony Bourdain (personaggio televisivo, cuoco, documentarista e scrittore, ndR). Guardando i suoi programmi ho deciso di viaggiare e di fare “ammenda” di quello che avevo fatto con il mio lavoro fino a quel momento.
Qual è il tuo rapporto con la spiritualità?
Da qualche anno la spiritualità è una parte enorme della mia vita. Ho iniziato a interessarmene quando sono andata in India. A Varanasi ho visto un tale livello di devozione, con le persone che nella pace dell’alba vanno sui ghat, i gradoni che conducono al fiume Gange, che ho sentito un’energia diversa. Ho avuto la consapevolezza che c’è qualcosa che va oltre la materia, qualcosa di più grande di noi. È stata una certezza, più che un sensazione.
Come si sceglie la felicità?
La felicità si sceglie quando non si cede alla propria parte peggiore, quella che fa crogiolare nella commiserazione.
E cos’è, per te, la bellezza?
È un’emozione, qualcosa che quando la vedi ti scalda dentro.