Il termine “ageismo” indica un atteggiamento, diffuso a livello mondiale, soprattutto negli ultimi 50 anni, di una fascia di età che discrimina un’altra. Nella stragrande maggioranza dei casi si manifesta da parte delle generazioni più giovani. Il gerontologo statunitense Robert Neil Butler lo aveva coniato nel 1969, proprio per definire gli stereotipi che una fascia di età attribuisce ad altre, riferendosi, in particolare, alle discriminazioni verso gli anziani. Christian Maggiori, psicologo e professore universitario, ha stimato che, nel 90% dei casi, l’ageismo colpisce gli anziani.
Essere anziani, una colpa
Si tratta di un fenomeno poco conosciuto ma occorre porlo all’attenzione dell’opinione pubblica, alla stregua delle altre disparità. È talmente ordinario e assorbito nella cultura moderna, infatti, da non essere considerato una forma di discriminazione bensì una sorta di confidenza spiritosa che ironizza su acciacchi e altre caratteristiche tipiche di un’età più avanzata. Nella società dell’immagine e dell’esteriore, sbilanciata decisamente verso la bellezza e il mito della giovinezza eterna, con pubblicità che insistono su quest’illusione, a cui si abbina la tecnologia miracolosa che mitiga l’età e consente di sbancare sui social, essere anziani è una colpa. Si tratta, indirettamente, di messaggi a danno dell’età avanzata, considerata negativa a livello fisico, sociale, cognitivo, un peso insopportabile per le società moderne e ipertecnologiche.
L’impatto dell’ageismo
L’ageismo, quale atteggiamento discriminatorio sociale e mediatico, finisce per far sentire più soli gli anziani. Rischia, inoltre, di far mancare anche quei piccoli gesti d’affetto, di solidarietà, di compagnia nonché economici che aiutano l’anziano a essere un individuo non solo e ancora non ultimo. Un antico proverbio africano recita: “Un anziano che muore è una biblioteca che brucia”. Il pregiudizio verso l’anziano si nutre dei luoghi comuni più classici, quelli che lo vogliono brontolone, inutile, malato e intollerante. L’impostazione molto spesso è ambivalente; da un lato si considera l’anziano come uno scarto sociale e poco rilevante, dall’altro si teme che la sua presenza possa intaccare le sicurezze consolidate, la sanità, le risorse sociali, il lavoro e i “lavoretti” saltuari.
Cambio di mentalità
Si tratta di un tema moderno poiché è notorio il profondo rispetto, per tutte le civiltà del passato, nei confronti delle persone più “mature”. Nella seconda metà del Novecento, con l’ampliamento della forbice di età fra le generazioni e un mutamento radicale di prospettiva, si è passati a una fase iniziale di sottile scherno, poi a una più distaccata, indifferente e quasi infastidita dalla presenza dell’anziano. Il consiglio richiesto a un anziano era considerato, un tempo, come una saggia informazione da tener sempre presente e a cui uniformarsi; ora il parere di un “vecchio” è considerato anacronistico, banale e ripetitivo.
Un duplice atteggiamento
Il paradosso è che la popolazione meno matura (giovani e adulti), alle prese con la vita frenetica e distratta di tutti i giorni, non si preoccupa di tutelare la condizione sociale ed economica che sarà la propria nel prossimo futuro. Per i casi di ageismo, soprattutto quelli più pesanti, sino ai maltrattamenti e alle violenze, le vittime devono attivarsi presso le associazioni di volontariato dedicate, la Caritas, l’Auser, le parrocchie, distribuite su tutto il territorio nazionale (oltre alle Forze dell’Ordine), per poter ricevere assistenza, informazioni, aiuti e denunciare le discriminazioni subite. Il periodo di quarantena dei mesi scorsi ha messo in mostra un duplice atteggiamento: da una parte la parziale rassicurazione di molti che vedevano la “strage” di anziani come un male minore, una sottile consolazione poiché il virus non mirava alle fasce di età più produttive e rampanti del Paese (alcuni commenti sui social tendevano a tranquillizzare ricordando come le vittime fossero quasi tutte anziane); l’altro aspetto, decisamente opposto, era costituito dai tantissimi volontari che si adoperavano per sostenere, con maggior impegno del solito, gli anziani in difficoltà nelle proprie case.
La ricerca
L’11 agosto scorso, l’Istat ha pubblicato uno studio molto interessante e ampio dal titolo “Invecchiamento attivo e condizioni di vita degli anziani in Italia”. La premessa al documento è molto importante: “Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione è ormai un processo ineludibile in quasi tutti i Paesi a sviluppo avanzato. Occorre dunque un cambiamento culturale che porti a politiche mirate per governarlo, con l’obiettivo di trasformarlo da un peso a una risorsa per la società, attivando tutte le potenzialità delle persone anziane. La progressiva attenzione a livello internazionale ha stimolato molti paesi ad adottare politiche per l’invecchiamento attivo e ha portato alla costruzione dell’Active ageing index (Aai) a cui l’Istat ha collaborato con i partner internazionali (Unece e Commissione europea). Si tratta di uno strumento composto da 22 indicatori, in grado di monitorare i risultati nei diversi ambiti, utile soprattutto ai policy maker per la valutazione e l’adozione di politiche adeguate di sostegno all’invecchiamento attivo. Tale indice è stato declinato per genere e regione, abbracciando un periodo che va dal 2007 al 2018”.
I dati
Nelle prime pagine del fascicolo si possono leggere dei dati molto indicativi: “Al 1° gennaio 2019 gli individui residenti nel Paese con 65 anni di età ed oltre ammontano a 13,8 milioni, pari al 22,8 per cento del totale della popolazione. Nel 2009 sfioravano i 12 milioni e costituivano il 20,3 per cento. Ma è andando ancora più a ritroso nel tempo che ci si può rendere conto di quanto potente e prodigiosa possa essere stata la crescita della cosiddetta popolazione ‘anziana’: da 4,6 milioni nel 1960 (9,3 per cento) a 7,4 milioni nel 1980 (13,1 per cento), a 10,3 milioni nel 2000 (18,1 per cento) […] Nel 1960 il numero di anni di vita mediamente a disposizione per un sessantacinquenne era pari a 13,1 per gli uomini e a 15,2 per le donne. Le medesime cifre sono passate oggi rispettivamente a 19,3 e a 22,5 anni. Per il 2060 si prevede si possa arrivare, sempre in base allo scenario mediano, a 22,4 anni e a 26”.
Un auspicio
Lo “scontro” generazionale non porta a risultati positivi ed è completamente sterile: qualche battuta fra le varie età a confronto può esser simpatica e stimolante; altro discorso è rifiutare, allontanare, dimenticare, provocare e offendere chi non è coetaneo o quasi. Ciò che occorre, invece, è la collaborazione intergenerazionale, proficua per tutti i soggetti coinvolti. In queste ultime settimane, la situazione si è completamente ribaltata e, complice una maggiore attenzione dei nonni, contrapposta a una condotta più spregiudicata dei giovani, l’età media dei contagiati dal virus si è radicalmente abbassata sino a giungere poco sotto la soglia dei 30 anni.
Un vuoto legislativo
Sono sparite, quindi, dai social, le rassicurazioni sulle vittime predestinate e il vento mutato ha indotto a parecchi ripensamenti su quella che non è più la “malattia dei vecchi”. La pandemia deve essere sfruttata, come un’opportunità, in risposta, di collaborazione e rispetto tra le varie generazioni. Fra tutte le conseguenze tragiche che ha portato con sé, sarebbe molto importante inserire un beneficio: quello della fine dell’ageismo, sia culturale sia mediatico sia pratico, al pari delle altre distinzioni sessiste e razziste. L’ageismo, pur contenuto da formule meno aggressive, risulta essere discriminatorio allo stesso modo e alla stessa intensità del sessismo e del razzismo ma, rispetto a queste due forme, paga lo scotto di non essere tutelato da apposite normative. È auspicabile, quindi, un intervento che possa colmare questo vuoto legislativo.