La prima volta che la incontrai mi sembrò di imbattermi in uno tsunami di passione per la giustizia, la verità, il riscatto delle sue sorelle, molte delle quali connazionali, rese schiave dalla tratta. Una vera guerriera era Adelina, così si faceva chiamare anche se non era il suo vero nome. Grazie a questa giovane donna negli anni ‘90 furono denunciate 80 persone e 40 arrestate per sfruttamento della prostituzione.
Lei mi chiamava spesso per parlare con “padre don Oreste” e così aveva questo particolare simpatico di mettere prima del “don” il “padre”: “padre don Aldo vorrei che parliamo insieme alla radio della tratta….vorrei che andiamo insieme sulla strada…verrò anch’io alla manifestazione contro la tratta”. Adelina era iperattiva, una vera combattente dopo una giovinezza drammatica fatta di tradimenti e inganni, di soprusi e torture subite da coloro che la costringevano a prostituirsi nei nostri marciapiedi d’Italia.
Gli “angeli in divisa”
Negli anni ‘90 i vari racket della prostituzione si muovevano imperturbati considerata la poca consapevolezza da parte delle varie istituzioni riguardo allo stato di schiavitù cui queste donne erano costrette. E così Adelina non solo si ribellerà ai suoi aguzzini e non solo collaborerà proficuamente con coloro che lei definiva i “suoi angeli custodi” e cioè le forze dell’ordine ma vincerà ogni timore per denunciare pubblicamente, ovunque poteva, il dramma della prostituzione schiavizzata.
Don Oreste Benzi trovò in questa ex-schiava una forte testimone di ciò che anche lui andava gridando ovunque a partire da quei palazzi del potere che ignoravano (o facevano finta di non capire) cosa accadesse sulle strade di Italia e del mondo. Esile e provata fisicamente ma interiormente irriducibile aveva condiviso tante battaglie con don Oreste contro il mercimonio coatto. Nel 2000 era divenuta cristiana ricevendo il battesimo e scegliendo come padrino proprio uno dei suoi “angeli in divisa”.
Due volte vittima
Aveva partecipato nel 2005 alla campagna “Stop alla tratta” della Comunità Papa Giovanni XXIII. Quella di Adelina Sejdini è una tragedia della dignità negata. Ed è al contempo la drammatica conferma che non basta esortare le vittime della tratta a denunciare i propri aguzzini se poi le istituzioni si dimenticano di loro. Adelina è stata due volte vittima. Prima dei suoi sfruttatori, poi dell’indifferenza. Con coraggio aveva aiutato le forze dell’ordine a reprimere a Varese il clan mafioso che a vent’anni l’aveva rapita a Durazzo, sottoposta a indescrivibili violenze (tra cui sevizie sanguinarie) e schiavizzata nell’inferno della prostituzione coatta.
Alla denuncia dei carnefici non è mai seguita la cittadinanza italiana, più volte promessa. Prima la burocrazia ha soffocato il suo sogno di normalità, poi neppure un cancro l’ha risparmiata e sembra che neanche abbia impietosito l’ufficio stranieri che gli avrebbe negato qualunque sussidio malgrado l’invalidità al 100%. Nessuna riconoscenza da parte dello Stato per il suo fondamentale contribuito al contrasto della criminalità organizzata.
Nessuna gratitudine da parte dei mass media ai quali con slancio solidale lei raccontava il suo calvario affinché fosse d’aiuto alle ragazze rimaste nelle mani delle mafie. Voce scomoda, usata e poi gettata senza la minima considerazione per il sacrificio e il martirio di una testimonianza solitaria ed eroica.
Sui documenti restava albanese, nonostante i venti anni trascorsi in Italia. Ma lei ripeteva: “Se torno in Albania sono una donna morta, quelli che ho fatto arrestare mi ammazzano”. In realtà a firmare la sua condanna a morte e a spingerla metaforicamente giù da quel ponte fatale sono state molte mani, coperte da oblio, omertà e formalismo. Adelina è morta prima dentro e poi fuori, perché pugnalare un’anima è grave quanto sopprimere un corpo.
Una dignità nuovamente calpestata
Neppure il tumore aveva fermato le sue proteste davanti alla questura e al Viminale finché, con modi sbrigativi, era stata allontanata dal comune di Roma senza che nessuno la ascoltasse. Proprio a lei che in Italia aveva imparato a fidarsi delle istituzioni dopo che in patria ne era stata umiliata e sottoposta a vergognosi tradimenti.
Si è gettata da un ponte per il dolore di una dignità nuovamente calpestata. Ma quante altre “Adeline” soffrono nel silenzio ipocrita di una società che vorrebbe normalizzare il commercio di esseri indifesi, e far passare per accettabili comportamenti distruttivi e mortificanti che degradano la sessualità a sfogo brutale di istinti perversi.
Nessuna sopraffazione ferisce più di un aiuto negato da chi ha promesso di prendersi cura di te: e proprio don Benzi diceva che non bisogna dare per carità ciò che è dovuto per giustizia.