In occasione del Congresso delle famiglie di Verona, alcune sigle pro-life osarono affermare che la prima causa di femminicidio al mondo è l’aborto, causando la levata di scudi di buona parte del mondo femminista della stampa politicamente corretta, che bollarono questo semplice dato di fatto come un’ignobile provocazione e una forzatura del fenomeno in chiave anti-abortista.
Peccato che le stesse voci non hanno avanzato le loro argomentazioni lo scorso fine giugno quando il rapporto 2020 del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa https://www.unfpa.org/swop) ha messo nero su bianco che a causa di quella che viene definita “preferenza per il figlio maschio”, mancano all’appello nel mondo circa 140 milioni di donne.
Questo vero e proprio genocidio contro le donne è perpetrato tramite tre pratiche: la più diffusa è l’aborto dei feti femmina; la seconda è la selezione pre-impianto in base al sesso che scarta gli embrioni femmina e infine il drammatico fenomeno della discriminazione e della negligenza nei confronti delle bambine nate, che nei paesi più poveri porta ad una maggiore mortalità tra le femmine.
Aborto selettivo, uno squilibrio di genere
Sempre secondo il rapporto dell’Onu – non stiamo dunque attingendo ad un organizzazione che può essere incasellata tra le sostenitori di politiche pro life e pro family – “la preferenza del figlio maschio ha anche portato a gravi squilibri tra il numero di uomini e donne, distorcendo l’equilibrio del rapporto tra i sessi delle popolazioni dei paesi, al punto che un gran numero di uomini potrebbe non essere in grado di trovare partner e avere figli”. “Gli effetti degli squilibri nel rapporto tra i sessi – si legge ancora nel testo del Fondo Onu per la popolazione – possono esacerbare i problemi di violenza di genere, inclusi stupro, sesso coatto, sfruttamento sessuale, tratta e matrimoni precoci, tutte violazioni dei diritti umani”. Insomma l’aborto selettivo, provocando uno squilibrio di genere in molte popolazioni del mondo, diventa un moltiplicatore di violenza anche nei confronti di quelle donne che invece sono riuscite a nascere.
L’agenzia delle Nazioni Unite spiega poi, senza però fare nomi, che questa “compressione della fertilità” è più comune nei Paesi con politiche di pianificazione familiare mirate a una dimensione familiare massima di uno o due bambini. Ovviamente ci vuole poco ad individuare in Cina e India quei territori dove la pratica dell’aborto selettivo è più diffusa.
I numeri
Lo scorso 11 ottobre, in occasione della Giornata mondiale delle bambine, l’Alliance Defending Freedom (organizzazione di giuristi cristiani per la protezione dei diritti fondamentali) diffuse la stima di almeno 60 milioni di donne andate ‘perse’ negli ultimi dieci anni in India. A tal proposito, gli attivisti pro-life continuano a chiedere la corretta applicazione del Pre-Conception Pre-Natal Diagnostics Techniques Act adottato nel 1994. La norma approvata in India e che vieta le indagini prenatali sulla determinazione del sesso, come i test sul liquido amniotico o su campioni di tessuto coriale della placenta. Nelle settimane scorse è stato inoltre pubblicato uno studio della King Abdullah University of Science and Technology dell’Arabia Saudita, secondo cui tra il 2017 e il 2030 in India non vedranno la luce circa 6,8 milioni di bambine.
La situazione in Cina
Le cose non vanno meglio in Cina dove i numeri stimati da diverse organizzazioni sono molti simili: le donne mancanti nel più popoloso Paese del mondo sarebbero tra i 30 e 40 milioni. Un recente report di Human Rights Watch riferisce del traffico di giovani donne tra il Myanmar e la Cina per compensare questo gap, creato da 36 anni di politica del figli unico (tra il 1979 e il 2015) imposta dal partito comunista. Si calcola quindi che entro il 2030 il 25% dei trentenni cinesi non troverà mai una donna da sposare.
Scarsa presa di coscienza
L’allarme lanciato dal rapporto dell’Onu non corrisponde però ad una vera e propria presa di coscienza del problema, se da una parte infatti afferma la necessita di contrastare la discriminazione in base al sesso del nascituro dall’altra sostiene che “i divieti sulla selezione del sesso sono spesso inefficaci e violano anche i diritti riproduttivi, incluso l’accesso all’aborto sicuro nei paesi in cui l’aborto è legale”. L’interruzione di gravidanza viene vista dunque come uno strumento di salute riproduttiva che non deve avere alcun limitazione legislativa. Pertanto, sempre stando alle Nazioni Unite, bisogna contrastare culturalmente la preferenza di genere ma non la pratica dell’aborto. Una lettura che ignora completamente il fatto che sono le stesse normative che concorrono a determinare la cultura di un popolo.
Un paradosso della società progressista
Quindi malgrado se ne inizi a parlare la selezione dei feti in base al sesso è un fenomeno che non entra nel dibattito pubblico internazionale, perché è una pratica che crea un paradosso nella società progressista, che da un lato vuole difendere le bambine dalle discriminazioni di genere e dall’altra promuove in ogni modo la rimozione di ogni legge che ostacola l’aborto. Intanto non poche voci in ambito femminista iniziano a rifiutare una retorica ormai in completo cortocircuito.