Il diritto all’abitare viene riconosciuto per la prima volta all’interno Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, promossa dalle Nazione Unite e ratificata nel 1948, nella quale, all’articolo 25, viene incluso nel più ampio diritto ad uno standard di vita adeguato con le parole che seguono: “ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e sì ai servizi sociali necessari”.
La situazione in Italia
In Italia, il diritto all’abitare non è espressamente riconosciuto come un diritto sociale dalla Costituzione ma, la Corte Costituzionale, ha iniziato a definirne i parametri con la sentenza 252/1983, in cui la casa viene riconosciuta come un bene primario per la persona. Ad oggi, però, in considerazione del complicato contesto internazionale che sta causando aumenti diffusi, la casa, non è più un bene rifugio e, di conseguenza, il diritto all’abitare, è meno garantito. Interris.it, in merito a questa tematica, ha intervistato la dott.ssa Alessia Maggi, responsabile dell’ambito abitare di Caritas italiana.
L’intervista
Dott.ssa Maggi, in base alla vostra esperienza di prossimità, quali sono le cause alla base della crescente emergenza abitativa? Chi sono le persone maggiormente colpite?
“L’abitare, ad oggi, è uno dei diritti negati a una parte sempre più significativa della popolazione. Lo si vede nelle statistiche riguardanti la condizione abitativa in Italia, nei quali si concentrano i principali elementi di disuguaglianza sociale. Le famiglie in affitto sono più di cinque milioni, si concentrano soprattutto nelle grandi aree metropolitane e sono meno abbienti. Quindi soprattutto i giovani, il 74% dei nuclei famigliari di origine straniera, il 50% delle persone sole under 35, le giovani coppie con figli e le donne sole con figli minori. Di questi cinque milioni, ben tre spendono per la casa una quota uguale o anche superiore al 40% del reddito disponibile. Tale soglia è riconosciuta al livello internazionale come molto critica ed è possibile scivolare molto facilmente nello sfratto. Solo nel 2022, su questo versante, ci sono state 42mila nuove sentenze e 30mila esecuzioni. I prezzi delle case crescono e, con loro, anche gli sfratti per morosità, ma i salari calano e, di conseguenza, rappresentano una delle cause dirette di impoverimento della popolazione. Negli ultimi trent’anni, i salari italiani sono calati del 3% mentre, in Germania e in Francia, sono aumentanti di più del 30%. Il fenomeno dei cosiddetti ‘working poor’, ovvero coloro che hanno un posto di lavoro ma vivono in condizioni di povertà, rappresentano il 13% dei lavoratori italiani, quindi più di tre milioni di persone che, pur lavorando, restano povere. L’emergenza abitativa è la cartina di tornasole di un’urgenza più profonda: affitti troppo alti e stipendi troppo bassi hanno fatto sì che, le famiglie in affitto che si trovano in condizione di povertà assoluta, hanno superato il milione”.
In che modo Caritas sta agendo sul fronte dell’emergenza abitativa per garantire il diritto alla casa per le persone in condizione di fragilità?
“Partecipiamo a tutti i tavoli riguardanti questo tema, operiamo insieme ad altre associazioni e facciamo interventi pubblici di sollecitazione. Utilizziamo inoltre i fondi Cei 8×1000 per finanziare dei progetti specifici nell’ambito dell’abitare. In particolare, dal 2018 al 2023, sono stati finanziati 386 progetti nell’ambito. Questi ultimi, in parte, intervengono sull’emergenza e cercano di aiutare le famiglie in difficoltà a pagare i canoni d’affitto, i mutui e le bollette, al fine di non perdere la casa, oppure si allestiscono centri di prima accoglienza e dormitori. Ci sono anche degli spunti nuovi, come ad esempio gli alloggi sociali, l’housing first e le accoglienze diffuse in piccoli gruppi, soprattutto nelle parrocchie dove ci sono spazi inutilizzati. Si va verso un abitare sociale di qualità, integrato con il territorio e, al fianco della povertà abitativa, si affronta anche quella relazionale. Una risposta concreta di aiuto che vuole reinserire le persone nella comunità attraverso un’azione generativa finalizzata a permettere il loro riscatto: da cittadini invisibili diventano protagonisti della propria vita e, loro stessi, diventano agenti di cambiamento. Tutto ciò non significa solo dare le chiavi di una casa, ma mettere al centro la persona, le sue scelte e le sue ispirazioni. Oltre a ciò, si stanno sperimentando anche delle agenzie sociali per l’abitare, ovvero, a fianco dei Comuni e di altre associazioni, si prova a mettere in contatto locatari privati e pubblici con le famiglie in condizione di disagio, garantendo con uno specifico fondo le situazioni di mancati pagamenti e instaurando la fiducia tra di loro.
Caritas, in questi progetti, sta operando anche nell’ambito del contrasto alla povertà energetica. Come si sta connotando la vostra azione?
“Si, in queste progettualità si porta avanti un importante opera di contrasto alla povertà energetica, sia materiale che culturale. Su quest’ultimo versante stiamo valorizzando le azioni volte a potenziare un consumo più sostenibile da parte delle famiglie disagiate, intervenendo sia nelle loro abitazioni che con specifici corsi per favorire una responsabilizzazione che fa anche abbassare i costi della casa. Circa il 10% della popolazione, ad oggi, è in condizione di povertà energetica con una tendenza all’aumento negli ultimi dieci anni e si è ulteriormente acuita nell’inverno 2022 con l’avvio della guerra in Ucraina”.
Quali sono i vostri auspici per il futuro in riguardo al ripensamento delle politiche abitative nel loro complesso?
“L’accesso al diritto all’abitare è un tema a noi molto caro ed è fissato da norme e da principi europei e costituzionali. La situazione attuale è molto grave e dovrebbe allarmare tutta la società civile. Il diritto all’abitare non può prescindere da un ruolo del pubblico al governo delle politiche abitative. Lo scopo deve essere la realizzazione e il recupero degli alloggi necessari. Attualmente, 700 mila domande inevase giacciono sui tavoli dei comuni per l’Edilizia Residenziale Pubblica. Servono degli interventi straordinari che si muovano però in un’ottica più generale, al fine di dare effetti stabili e duraturi. L’Edilizia Residenziale Pubblica affiancata all’edilizia sociale potrebbero essere due strumenti utili per un intervento finalizzato a favorire la coesione sociale. Una a carico del pubblico destinata alla costruzione di alloggi per le fasce sociali più deboli, l’altra componente metterebbe invece delle locazioni a canoni sostenibili per coloro che non sono in grado di accedere al libero mercato. Esiste un vasto patrimonio pubblico e privato inutilizzato o sottoutilizzato, compreso quello confiscato alla criminalità organizzata. Esso potrebbe essere riutilizzato e convertito a destinazioni d’uso residenziale e sociale. Accanto a questo però, servono dei programmi a livello regionale e comunale, miranti a riqualificare le periferie e metterle in sicurezza con la manutenzione del patrimonio e favorendo l’integrazione sociale per evitare l’insorgenza di fenomeni di ghettizzazione ed esclusione. Il punto fondamentale però, è l’apertura di una fase di ripensamento radicale del modello di sviluppo urbano che, dagli anni ’90, è incentrato solo sulla proprietà privata. Bisogna dare la possibilità di creare un futuro alle giovani generazioni, agendo sul versante della sostenibilità ambientale e lottando contro le diseguaglianze sociali”.