Le radici teologiche del Magistero di Francesco sono descritte da Juan Carlos Scannone nel saggio “La teologia del popolo“. Juan Carlos Scannone, maestro di papa Francesco a Buenos Aires, è stato il padre della “teologia del popolo” argentina. L’Istituto Universitario Sophia gli ha conferito il dottorato h.c. in Cultura dell’Unità. Un’esistenza consegnata a promuovere quel “sempre di più” e “sempre oltre” del Vangelo che fa camminare l’umanità secondo il disegno di giustizia, verità e amore di Dio Trinità. Ad essere analizzato da padre Scannone è un versante con caratteristiche proprie della teologia della liberazione che ha influenzato Jorge Mario Bergoglio. Una chiave imprescindibile per conoscere papa Francesco è capire sia l’ispirazione profonda della sua teologia, sia le radici filosofiche della sua pastorale. Sia i suoi gesti, le sue parole, i suoi scritti, il suo impulso riformatore. Padre Scannone ricostruisce le origini della teologia del pueblo, i suoi caratteri distintivi, le figure dei suoi principali protagonisti e le tappe del suo sviluppo storico fino ai nostri giorni. Il risultato è un modello universalizzabile di inculturazione della teologia mediante la sapienza e la pietà del popolo di Dio incarnato nei popoli della terra. Il Magistero di Francesco porta la teologia del popolo a un livello più universale e la sviluppa con creatività. Secondo padre Scannone teologia del popolo esige di essere conosciuta e studiata come importante frutto del rinnovamento conciliare (specialmente nella sua declinazione latinoamericana): rappresenta un apporto originale alla teologia in quanto tale e al dialogo teologico interculturale. Ma è altresì modello metodologico di annuncio ed è spinta qualificante per riformare la chiesa universale. Gesti e parole di Francesco sono tesi a trasmettere la profonda convinzione che tutto è abitato, presieduto e anticipato da Dio. Bontà e misericordia sono tutt’altro che buonismo ingenuo e semplice che appiattisce ciò che dottrina e ortodossia a fatica nei secoli hanno elevato ma sono il solco su cui fondare la “Chiesa in uscita”. Un solco apparentemente breve ma dagli effetti prolungati. Importanti processi e provvedimenti innescati da Francesco hanno i connotati della irreversibilità.
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Magistero del popolo
Spesso i mass media ricorrono a slogan o semplificazioni nel tentativo di sintetizzare l’idea di Chiesa che Francesco ha in mente. Ma per comprendere realmente la novità rappresentata dal pontificato di Jorge Mario Bergoglio è più utile delinearne il contesto ecclesiale e individuare il quadro di riferimento su cui si fonda. Non si può capire l’azione di Francesco senza far riferimento al Concilio e a quanto è avvenuto nella Chiesa su impulso del Vaticano II negli ultimi decenni. Don Luis Antonio Gallo, teologo all’Università Pontificia Salesiana, offre una lettura originale del rapporto fra Francesco e la stagione aperta da Giovanni XXIII per aggiornare la Chiesa. L’impatto della prospettiva ecclesiale del Concilio Vaticano II arrivò a Jorge Mario Bergoglio attraverso le conferenze generali dell’episcopato latinoamericano del post-Concilio. Una rilettura, insomma, a partire dalla situazione dei popoli del suo continente.
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Magistero degli ultimi
Dopo il Concilio Vaticano II il seme conciliare trovò un terreno fertile per l’attuazione dei suoi orientamenti nel continente latinoamericano, situato nel Sud del mondo, e quindi in quello che venne chiamato “il mondo della povertà”, unico continente allora massicciamente cristiano come risultato dell’evangelizzazione ispano-lusitana. E segnato allo stesso tempo da pesanti condizionamenti di tipo economico, sociale, politico, culturale e, non ultimo, religioso. “Il Concilio vi arrivò in realtà già filtrato”, sottolinea don Gallo. Appena due anni dopo la sua conclusione, infatti, attraverso l’enciclica “Populorum Progressio” (1967) Paolo VI volle dare una risposta all’incalzante domanda sollevata dalla presa di posizione del Concilio nella sua fase finale: Chiesa al servizio, ma di quale umanità? E la diede con una chiaroveggenza e concretezza sorprendente, e persino inquietante. Non mancò chi tacciò il papa di assumere una prospettiva comunista, tale era il peso che egli attribuiva nell’enciclica al fattore economico per definire della situazione mondiale. Su questa scia si collocarono, ognuna con sfumature proprie, le quattro Conferenze generali dell’episcopato latinoamericano (più avanti con l’aggiunta “e dei Caraibi”) che si celebrarono nel post-Concilio. Nel 1968 si celebrò a Medellín (Colombia), con la presenza iniziale di Paolo VI, la seconda Conferenza (la prima era stata celebrata a Rio di Janeiro nel 1955, quindi prima del Vaticano II). Essa, adottando il metodo già enunciato da Giovanni XXIII nella “Mater et Magistra” e adoperato, specialmente nella sua prima parte, dalla costituzione “Gaudium et Spes”, segna la nascita del “profetismo ecclesiale” all’insegna del numero 11 della costituzione. E il vero inizio di una nuova evangelizzazione del continente. Medellín, secondo don Gallo, non fu infatti una semplice applicazione del Vaticano II, come più di uno ha affermato, ma una sua vera “rilettura”, a partire dalla visione della realtà dei popoli latinoamericani.
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Spirito del Concilio
Figlio del suo continente e del Concilio, Jorge Mario Bergoglio non partecipò alla Conferenza di Medellín, e nei suoi scritti non c’è nessun esplicito riferimento ad essa. Ma dall’insieme dei suoi scritti e soprattutto dai suoi atteggiamenti e comportamenti pastorali posteriori, si può cogliere quanto ne abbia assimilato lo spirito. Tra i suoi scritti ne è un esempio emblematico la descrizione da lui fatta nel volume “Solo l’amore ci può salvare”, nel capitolo intitolato “Il coraggio di annunciare il Vangelo” (2006), della figura di monsignor Enrique Angelelli, il vescovo di La Rioja che aveva incarnato pienamente lo spirito di Medellín fino a venire violentemente eliminato dal regime militare, nel 1976, per il suo impegno in difesa dei più poveri, e che è stato, come asserì Bergoglio nel suo scritto, “testimone della fede versando il proprio sangue”. A Puebla Jorge Mario Bergoglio, che non era ancora vescovo, vi partecipò da superiore provinciale dei gesuiti argentini (1973-1979). Nel libro “Noi come cittadini noi come popolo” ne fa una sola citazione esplicita. Ma si vede lungo tutto lo scritto, e soprattutto nella sua prassi pastorale posteriore come vescovo, quanto egli abbia fatto suo il binomio-chiave “comunione e partecipazione”, filo conduttore della Terza Conferenza nelle sue opzioni per una nuova evangelizzazione. “Jorge Mario Bergoglio era invece vescovo da pochi mesi quando partecipò alla conferenza di Santo Domingo”, racconta don Gallo. Qualche anno dopo, il 30 settembre 2009, parlando, già da cardinale, in un convegno organizzato dall’Università gesuita del Salvador a Buenos Aires, fece un riferimento al documento della Conferenza nel punto in cui esso afferma che “la povertà estrema e le strutture economiche ingiuste che causano grandi disuguaglianze” sono violazioni dei diritti umani.
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Aparecida
Fu soprattutto ad Aparecida che la partecipazione di Jorge Mario Bergoglio e il suo ruolo spiccarono in maniera rilevante. Fu relatore dell’Assemblea e anche estensore del suo documento. Successivamente, poco prima di essere eletto papa, nella Lettera all’arcidiocesi di Buenos Aires per l’Anno della Fede intitolata Varcare la soglia della fede (2012), affermò che varcare la soglia della fede significa tra l’altro “vivere nello spirito del Concilio e di Aparecida”. Al di là dei riferimenti espliciti ai documenti delle conferenze episcopali latinoamericane, nei suoi scritti anteriori al suo pontificato si coglie con inequivocabile chiarezza una sintonia di pensiero, di atteggiamenti e di prassi con esse e, al di là di esse, con il Vaticano II che ne è la fonte ispiratrice. Don Gallo lo coglie soprattutto nella metodologia dell’approccio pastorale alla realtà, e cioè partire dalle situazioni reali, concrete, non da principi o enunciati dottrinali, illuminandole con la luce del Vangelo e proponendo vie concrete di azione. E anche nell’insistenza su una Chiesa non autoreferenziale, bensì in uscita verso le periferie, non solo geografiche, ma anche esistenziali, nelle quali si trovano i poveri, gli ultimi, gli esclusi, e nella proposta concreta (anche se non letteralmente enunciata) del binomio comunione e partecipazione, che richiede l’eliminazione di ogni accaparramento egoistico, singolo o di gruppo, sia dei beni materiali che del potere, della cultura o dei privilegi sociali, e verso l’abolizione di ogni forma di emarginazione ed esclusione.