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16 ottobre 1943, il rastrellamento del ghetto di Roma

A 78 anni da quel giorno, l’intervista di Interris.it a Riccardo Pacifici, già presidente della Comunità ebraica di Roma, Commendatore dell'ordine al merito della Repubblica italiana e nipote del rabbino di cui porta il nome, morto ad Auschwitz nel 1943

Come 78 anni dopo, il 16 ottobre 1943 era un sabato. Prima dell’alba di quel giorno, alle 5:30 del mattino, a Roma, scattò il rastrellamento di più di un migliaio di persone appartenenti alla comunità ebraica che viveva nella capitale d’Italia da parte delle forze d’occupazione naziste. 1.259 tra uomini, donne e bambini vennero prelevati da via Portico d’Ottavia e le strade vicine – area che fino a un secolo prima era quella del ghetto ebraico capitolino – , ma anche da altre parti della città. Gli arrestati furono condotti al Collegio militare in via della Lungara, dove rimasero per trenta ore, prima di essere trasferiti alla stazione Tiburtina. Da lì, nel primo pomeriggio di lunedì 18 ottobre a bordo di un convoglio partirono, in direzione del campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, dove arrivarono dopo quattro giorni.

Dei 1.022 che partirono ne tornarono sedici, di cui una sola donna, Settimia Spizzichino, poco più che ventenne (era nata il 15 aprile 1921). Per ricordare quanto successo in questo tragico episodio della storia del nostro Paese, In Terris ha intervistato Riccardo Pacifici, già presidente della Comunità ebraica di Roma, Commendatore dell’ordine al merito della Repubblica italiana, nel collegio della Fondazione Museo della Shoah, figlio dello storico Emanuele Pacifici – rimasto ferito nell’attentato alla sinagoga di Roma del 1982 – e nipote del rabbino di cui porta il nome, morto ad Auschwitz nel 1943.

L’intervista

Cosa è successo a Roma quel sabato 16 ottobre 1943?

“Nella capitale occupata, città aperta, a fine settembre la Comunità ebraica romana aveva subìto il ricatto di consegnare cinquanta chili d’oro entro 24 ore per evitare la deportazione, un’iniziativa del comandante della Gestapo a Roma Kappler che negoziò questa consegna, a cui parteciparono anche cittadini italiani. Nonostante questo, ci fu il rastrellamento. Nell’immaginario l’operazione si sarebbe svolta nel ghetto, invece è avvenuta in tutta la città, anche nelle zone periferiche. Seguita poi da una seconda deportazione nel gennaio del 1944. Gli ebrei catturati sono stati portati in una caserma dell’esercito italiano in via della Lungara e il 18 ottobre partirono per il viaggio di non ritorno”.

Solo una donna, Settimia Spizzichino, oltre a 15 uomini, è sopravvissuta alla quella deportazione. Qual è stata poi la sua vicenda?

“E’ stata una superstite anche di quanto praticato dal dottor Josef Mengele a Birkenau e una delle prime persone a parlare, a farsi testimone di quello che era successo. Lei in Italia ha aperto un fronte, il racconto della Shoah degli altri sopravvissuti è venuto molto dopo. Tornare ad Auschwitz, anche solo raccontando, è molto difficile. A Primo Levi, che è stato un gigante del racconto, questo è costato la vita con il suicidio, Piero Terracina ha cominciato a raccontare molti anni dopo, a metà degli anni Novanta, in seguito alcuni episodi come la profanazione di un cimitero ebraico a Carpentras, in Francia, perché sentiva che quel pericolo non era finito”.

Lei ha perso suo nonno Riccardo, deportato ad Auschwitz. Come, nella sua famiglia, è stata trasmessa la memoria di quanto successo?

“Mio padre Emanuele e suo fratello sono rimasti orfani a 13 e 6 anni, per la morte dei loro genitori nelle camera a gas di Birkenau, e si sono salvati grazie al rifugio avuto dalle suore del convento di Santa Marta a Settignano, nel fiorentino, che hanno poi ricevuto la medaglia di ‘Giusti fra le nazioni’. Mio nonno Riccardo, rabbino, che a Genova collaborava con la Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei e con la resistenza italiana, riuscì a mettere in salvo i suoi figli e mia nonna grazie all’aiuto del cardinale Pietro Boetto, arcivescovo di Genova, e da quello di Firenze il cardinale Elia dalla Costa, anche loro riconosciuti come ‘Giusti fra le nazioni’. Fu poi catturato nel 1943, mentre mia nonna, nonostante si fosse rifugiata nel convento di Santa Maria del Gesù a Firenze, venne arrestata a causa di una delazione insieme ad altre 12 donne, con i loro bambini, dalle milizie fasciste italiane della Banda Carità, così chiamata per il nome del loro capo Mario Carità”.

Come si potrà tenere viva la memoria, quando i testimoni diretti non ci saranno più?

“Mio padre Emanuele è stato memoria vivente, ha raccolto la più grande collezione di Judaica in italiano e ha speso la sua vita a cercare le storie dei ‘Giusti fra le nazioni’. Diciassette anni fa abbiamo pensato il Museo della Shoah. Io parlo nelle scuole e dialogo con i ragazzi per costruire una cultura contro l’indifferenza, il vero tema di oggi, e di come fare memoria. Viviamo in un mondo in cui grazie alla multimedialità e ai contenuti audiovisivi possiamo trovare moltissime testimonianze dei sopravvissuti. Dobbiamo diventare ‘sentinelle della memoria’. Non testimoni, che sono coloro che hanno raccontato: le sentinelle sono coloro che hanno ascoltato e riferiscono”.

Quanto antisemitismo si vede in giro, in Italia e in Europa?

“Non penso ci sia una nuova ondata, c’è sempre stato ma prima c’era un maggior pudore nel manifestarlo. La differenza fra ieri e oggi è che adesso c’è molta più gente che, grazie alla Giornata della memoria e ai viaggi, ha visitato quei campi e ascoltato le testimonianze. C’è maggiore consapevolezza del pericolo, tanto che ad ogni rigurgito l’indignazione è sempre molto forte sia da parte delle istituzioni che da parte dei cittadini”.

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