Chi ebbe l’occasione di osservarlo dal vivo, magari da lontano, da Jersey City o dall’altro lato dell’East River, avrà probabilmente fatto fatica a cancellarlo dallo skyline newyorkese. Radicalmente cambiato, guardando in direzione Manhattan, dopo l’anno zero dell’era della globalizzazione. L’11 settembre 2001, dagli edifici del World Trade Center si snodò un rivolo di fumo nero. Sempre più grande e informe, fino a coprire l’isola con la sua coltre spessa e asfissiante, velenosa. La stessa che, idealmente, piombò sull’intera civiltà occidentale, violata dove forse si riteneva più protetta. Un martedì come tanti altri, divenuto il ground zero dell’umanità intera. Il giorno in cui ci scoprimmo vulnerabili, esposti, minacciati da una forza occulta in grado di colpire con violenza in nome dell’odio. Rendendo chiaro che, nella costruzione della rete globale, qualcuno aveva deciso di recidere i fili più fragili. Quelli del dialogo.
Il dubbio
Gli attacchi terroristici dell’11 settembre rappresentano il valico fra un prima e un dopo. Lo spartiacque fra un secolo nato nell’oscurità e ricostruito spianando la strada a una società sempre più prossima a se stessa, e un inizio Millennio all’insegna di un nuovo terrore, accompagnato dalla maturata consapevolezza di come l’essere “connessi” non significhi essere anche più vicini. La carneficina del World Trade Center fu atroce perché affondò gli artigli dell’odio nella sfera della quotidianità, mostrando un lato dell’uomo capace di ferire con fredda e indifferente violenza laddove ci si sente più al sicuro. E, trascorsi diciannove anni e combattuta una vera e propria guerra sul campo contro la rinnovata forza organizzata del terrorismo, le quasi 3 mila vittime di quella giornata restano una ferita insanabile nella coscienza dell’umanità. Che, tutt’oggi, non è riuscita a rispondere all’interrogativo che l’accompagna da quasi un ventennio. E’ davvero possibile un altro 11 settembre?
Il fantasma dell’11 settembre
Una questione che ritorna ciclicamente, nell’arco dei 12 mesi che intercorrono tra un anniversario e l’altro. Più o meno come lo spettro dell’atomica accompagnò gli anni della Guerra fredda, l’inconscia paura di rivivere un nuovo “martedì nero” del Wtc, con le stesse strazianti immagini, è qualcosa con cui si convive. Forse mitigata dai ritmi frenetici della società contemporanea, ma la colonna di fumo nero, i bagliori delle fiamme, i fotogrammi tragici di chi scelse di non aspettare il crollo delle Torri, sequenze infernali che incombono ancora nella mente di chi li vide. Dal vivo e non.
Lo strano endorsement
Se lo spettro degli attacchi alle Torri Gemelle aleggia ancora nell’immaginario collettivo della società occidentale, in tempi di campagna elettorale anche gli Stati Uniti tornano a farci i conti. Persino in modi inaspettati dal momento che, se l’argomento non entra appieno nel dibattito politico, a riaccendere le antiche braci ci pensano personaggi estranei al consesso americano. A intervenire è nientemeno che Noor bin Laden, nipote di Osama e residente in Svizzera, raggiunta dal New York Post e prodiga di endorsement nei confronti del presidente Trump. Secondo la donna, trentatreenne, con il Tycoon al comando la deriva terroristica resterebbe controllata.
Cosa che non accadrebbe se alla guida del Paese dovesse andare Joe Biden: “L’Isis ha proliferato con l’Amministrazione Obama-Biden. Trump, invece, ha mostrato di potere proteggere l’America dalle minacce straniere annientando i terroristi alla radice, prima ancora che abbiano la possibilità di agire”. All’attuale presidente andrebbe quindi il merito di aver mediato per il recente accordo fra Israele ed Emirati, mentre a Obama, che pure ha avviato l’operazione in Siria (così come il raid che portò all’eliminazione dello stesso bin Laden) contro il sedicente Stato islamico, il demerito di aver permesso l’escalation di terrore a metà anni Duemiladieci.
La nuova sfida dell’America
In sostanza, il limbo generato dagli attacchi suicidi del 2001 sembra perdurare. Troppo vicino per essere lenito dalle nebbie del tempo, e troppo lontano per entrare di fatto nel dibattito politico di un Paese che, oggi come oggi, è impegnato su delicate sfide interne: “L’11 settembre in quanto tale – ha spiegato a Interris.it Gregory Alegi, docente nel Dipartimento di Scienze Politiche di Storia delle Americhe della Luiss – non è nell’agenda politica. Lo è, piuttosto, il tema di come affrontare il lungo coinvolgimento degli Usa in guerre lontane. Trump, da parte sua, continua a rivendicare il suo ruolo di ‘non iniziatore’ nuove guerre ma, anzi, di pacificatore”. La questione si pone su un altro piano: “C’è un altro senso evidente, la visione molto conflittuale del mondo, l’idea degli Stati Uniti sotto attacco, degli Usa contro tutti, di culture e razze… L’America affronta ora una sfida di questo tipo“.
Un punto di contatto
Al netto di dichiarazioni estemporanee, il dibattito politico in senso stretto, per quanto prodigo di attacchi reciproci, l’11 settembre non lo ha mai menzionato. Forse perché un drammatico punto di contatto per una politica spiazzata anch’essa dalle immagini in mondovisione del Lower Manhattan: “Il fatto che se ne parli negli anniversari non vuol dire necessariamente che sia un argomento affrontato in quanto tale. Trump, fra tutte le accuse più o meno corrette che ha lanciato a Biden, non ha mai fatto cenno agli attacchi del 2001. Gli ha attribuito la volontà di esportare posti di lavoro in Cina, di voler disarmare la Polizia ma mai che con lui ci sarebbe un altro 11 settembre. A ogni modo, l’idea degli Stati Uniti come ‘poliziotto globale’ rende prossimi quegli eventi. La questione attuale, però, è più il ‘noi contro loro’, una mentalità un filino paranoica che, sotto certi aspetti, è agli sgoccioli perché la diversità etnica, culturale e religiosa è in aumento negli Usa. L’andamento demografico ci dice che entro massimo vent’anni i bianchi saranno una maggioranza relativa”.
Terrorismo interno
L’11 settembre, a quasi vent’anni di distanza, resta un monito perenne. Un punto di non ritorno per l’intera civiltà dell’Occidente. Ma anche un argomento che, per quanta presa possa ricoprire il dubbio atavico sulla possibilità o meno di una tremenda replica, non occupa ora il ruolo centrale di un’America attraversata dall’esplosione incontrollata di una feroce crisi endogena. “Non bisogna fare l’errore di percepire le minacce in base alle prime pagine dei giornali – ha spiegato Alegi -. La Corea del Nord è una minaccia da tanti anni, a volte finisce in prima pagina e a volte no. Mentre il terrorismo jihadista rimane come minaccia anche se non più con la base territoriale che gli aveva dato l’Isis. Ci sono dei luoghi, anche in Nord Africa, dove la matrice jihadista è presente. Negli Stati Uniti, in questi momento, prevale il timore per il terrorismo interno. Da una parte c’è chi teme le milizie neonaziste e dei suprematisti bianchi e chi, invece, i disordini dell’estrema sinistra. Questo punto è molto più attuale che il terrorismo jihadista. Nella campagna elettorale del 2016 Trump diceva che avrebbe fatto tornare a casa i soldati dall’estero, ora ci dice che pacificherà le città americane“. Il tempo dirà se questo sarà o meno il nuovo ground zero degli Stati Uniti d’America.