“Vi dico chi era davvero Karol Wojtyla”

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Italiano di origini polacche, Gianfranco Svidercoschi ha iniziato la carriera giornalistica giovanissimo nel 1959. Fu inviato dell'Ansa al Concilio Vaticano II e successivamente ricoprì l'incarico di vicedirettore dell'Osservatore Romano. A renderlo celebre nel mondo dell'informazione religiosa sono state soprattutto la collaborazione con Papa Giovanni Paolo II alla stesura di Dono e Mistero nel 1996 e la pubblicazione con Stanislao Dziwisz di Una vita con Karol nel 2007. Le sue biografie di Karol Wojtyla sono divenute film e documentari visti da milioni di persone in ogni angolo del pianeta. Siede accanto alla moglie Angela mentre trasforma l'intervista a In terris in un avvincente viaggio nel lato più inedito del pontificato che ha cambiato la storia. Un flusso di ricordi personali e di analisi geopolitica e georeligiosa che lo rende la memoria storica di un'epoca determinante per le sorti della Chiesa e della società contemporanea. All’inizio di Dono e Mistero, Giovanni Paolo II gli ha raccontato la sua prima esperienza come operaio, a 20 anni, nella cava di pietra di Zakrzowek, a Cracovia. Esperienza che, dopo l’invasione della Polonia da parte delle truppe di Hitler, e dopo la chiusura dell’università, era stato obbligato a fare per non rischiare di finire in un campo di concentramento. 

Che tipo di fede è stata quella di Karol Wojtyla?

“Aveva avuto una formazione cristiana molto particolare. Sua madre aveva fatto in tempo a insegnargli a farsi il segno della croce, a pregare. Ma poi erano stati due uomini, due laici, a forgiarlo nella fede: il padre e un personaggio straordinario, conosciuto per caso,Jan Tyranowski, sarto e catechista. Passavano gli anni e, attraverso molteplici esperienze, cementata in mezzo alle sofferenze e alle tragedie della Polonia, era maturata via via la vocazione sacerdotale, ma anch’essa in un modo che non era quello consueto, ordinario. Il regime comunista aveva chiuso i seminari e imposto ai vescovi di non accogliere più candidati. Così che Karol aveva cominciato a frequentare di nascosto i corsi di teologia. Continuava a lavorare alla cava, aiutava l’operaio che faceva saltare le mine, e poi a casa studiava da solo. E, sempre sostanzialmente da solo, aveva portato a termine il suo percorso spirituale, nell’avvicinamento all’Assoluto. E anche dopo, negli anni successivi, il suo essere ministro di Dio, da sacerdote e da vescovo, aveva sempre avuto connotazioni singolari, speciali. Un andare avanti con dentro la forza della fede, senza paure, spesso controcorrente. Come quando c’era stato l’incontro con i giovani”.

Da cosa nasce questo legame privilegiato con la gioventù?

“I giovani avevano subito percepito che quel prete non era come tanti altri; parlava di Dio, della religione, della Chiesa, ma anche dei loro problemi esistenziali: l’amore, il lavoro, il matrimonio. E Karol, a sua volta, aveva scoperto il valore profondo della giovinezza: che è un periodo di costruzione, di progettazione, ma anche di ricerca di risposte autentiche agli interrogativi sulla vita. Per cui, volendo mantenere costanti i fili di quel dialogo, e non lasciare i giovani in balia delle false lusinghe marxiste, si portava ragazzi e ragazze in campeggio. “L'apostolato dell’escursione”, lo aveva chiamato”.

Cosa ricorda del giorno in cui Karol Wojtyla è diventato Papa?

“Nulla sarebbe più stato come prima. Il 16 ottobre del 1978 dal conclave era uscito eletto il cardinale Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. Il primo Papa non italiano, dopo quattrocentocinquantasei anni. Un Papa che veniva dall’altra parte della “cortina di ferro”. Ed è qui che la storia aveva avuto un soprassalto. Perché,proprio grazie a chi in quel momento sedeva sulla cattedra di Pietro, Solidarność prima aveva resistito alla repressione, e poi era diventato l’apripista del grande cambiamento in senso democratico all’Est”.

E dell'attentato in piazza San Pietro quale memoria ha?

“Mi chiedo quale evoluzione avrebbe avuto la guerra fredda se quel 13 maggio Ali Ağca avesse mirato più “giusto” di come aveva tentato di fare e, molto probabilmente, di come gli avevano ordinato di fare. “Ma lei perché non è morto?”, chiese a Giovanni Paolo II andato a trovarlo in carcere. Ebbene, se quei colpi fossero arrivati a segno, la storia dell’Europa, ma anche quella del mondo intero, sarebbero andate nel modo in cui sono andate?”.

Quanto ha inciso Giovanni Paolo II sul crollo del muro di Berlino?

“Sarebbe ridicolo ritenere che sia stato il Papa ad abbattere con le proprie mani il comunismo. Lo diceva lo stesso Karol Wojtyla  pochi mesi prima di morire, nel suo libro Memoria e identità. Ed era la verità. La verità della storia. La verità di ciò che era accaduto nell’Europa dell’Est sul finire del secondo millennio. I fatti del 1989, rileggendoli oggi, trent’anni dopo, avevano colto di sorpresa tutti. Erano arrivati all’improvviso, anzi, proprio per i loro sviluppi incruenti, in modo inatteso, inaspettato. Incredulo l’Occidente. Presi in contropiede, sconvolti, i dirigenti dell’Urss”.

Perché la cortina di ferro si è sfaldata in modo così improvviso?

“Il 1989 aveva avuto una lunga gestazione. Una gestazione sotterranea, come un fiume carsico. Avviata dall’Atto finale di Helsinki nel 1975. Mosca aveva ottenuto quel che voleva: l’inviolabilità delle frontiere, quindi la riconferma della divisione dell’Europa in due, come aveva preteso Stalin a Yalta. Ma da Helsinki era anche uscito il sostegno alla causa dei diritti umani, al rispetto delle libertà individuali e collettive, compresa la libertà religiosa. E, tutto questo, aveva aperto una crepa nell’impero sovietico: una fenditura che, allargandosi sempre più, aveva corroso dall’interno l’ideologia marxista”.

Quanto ha inciso l'origine polacca di Karol Wojtyla?

“Il crollo del Muro  ha avuto anche una preparazione, per così dire, visibile, alla luce del sole. C’era stata la rivoluzione ungherese (1956) e la Primavera di Praga (1968), ambedue soffocate tragicamente nel sangue. Ma poi, dall’inizio degli anni Settanta, il dissenso era spuntato un po’ in tutto l’Est europeo, anche se in forme e modalità assai differenti. In Cecoslovacchia, era nata Charta 77, una protesta di élites, di circoli intellettuali. Mentre, in Polonia, il contrasto si era via via trasformato in un movimento di popolo. In Polonia, appunto. Un Paese con una popolazione a grande maggioranza cattolica. Dove la Chiesa, forte e compatta, aveva un profondo radicamento in tutti i settori sociali. Nel 1956, a Poznań, c’era stata la prima delle “piccole rivoluzioni”, come le chiamava il primate, il cardinale Stefan Wyszyński; ma, pilotata da ambienti revisionisti, ancora interna al sistema, era finita nel nulla. Nel 1968, a rivoltarsi erano stati intellettuali e studenti. Nel 1970, sul Baltico, la prima vera rivolta operaia, i primi sindacati clandestini. Nel 1976, a Radom e Ursus, erano di nuovo scesi
in piazza i lavoratori, ma stavolta con l’appoggio degli altri gruppi sociali: da quella inedita solidarietà, quattro anni dopo, sarebbe nato il primo sindacato libero nell’impero comunista”.

Di cosa è morto il comunismo?

“Il comunismo, come ha spiegato bene Enzo Bettiza, è morto di comunismo, il moloch ha divorato se stesso. Ma era stata la Polonia, “protetta” dal suo Papa, a dare il colpo del ko al regime marxista, ad accelerarne il tracollo, il definitivo fallimento”.

Al di là della geopolitica, quali sono gli aspetti più innovativi del pontificato di Karol Wojtyla?

“Giovanni Paolo II è stato autore di un aggiornamento, tanto rivoluzionario quanto coraggioso, della morale cattolica, e, in particolare, della morale sessuale-coniugale. Aggiornamento, però, non sempre capito, non sempre bene interpretato; e che, peggio ancora, venne tenuto volutamente in ombra dagli oppositori di Wojtyla. I quali temevano che ciò potesse ribaltare l’immagine del Papa che da tempo cercavano di costruire: e cioè, un Papa conservatore, oscurantista, lontano dai veri problemi della gente”.

Lei ha avuto la straordinaria opportunità di raccontare la “rivoluzione wojtyliana” dall'inner circle del Papa santo. Oggi Giovanni Paolo II è più dimenticato o rimosso? 

“Avendoci riflettuto su, e con un quadro storico-ecclesiale più preciso, non si può fare a meno di notare come il tentativo di cancellare o quantomeno sminuire al massimo la memoria e il programma di Giovanni Paolo II abbia avuto, per così dire, una subitaneità incredibile, e cioè tempi e risultati estremamente rapidi. Questo perché l’“operazione” era in atto da tempo, già prima della scomparsa di Wojtyla. Molti di coloro i quali hanno paura di lui, e rifiutano il suo progetto di cambiamento, erano già spuntati durante il pontificato. Anzi, per certi aspetti, fin dall’inizio del pontificato. Basterà ricordare le diffusa ostilità nei confronti del “Papa polacco”, il Papa che aveva fatto saltare il monopolio italiano sul papato”.

A cosa si riferisce?

“Penso agli attacchi a Wojtyla per i suoi “mea culpa”, per la Giornata mondiale di preghiera ad Assisi, per le visite,  prime volte di un Pontefice,  in una sinagoga e in una moschea. E, questo soprattutto, il totale gravissimo silenzio dei vescovi alla richiesta del Papa, in vista del Giubileo del 2000, di riferire su come avessero realizzato il Concilio Vaticano II nelle loro diocesi. In breve, a fronte di un Papa riformatore, c’erano interi episcopati assolutamente impreparati ad attuare al loro interno una vera riforma. E la spiegazione venne dallo stesso Wojtyla, quando una volta gli chiesero perché in molti Paesi, dopo le sue visite pastorali, fossero cambiate le cose, le situazioni sociali e politiche. “Perché – disse – troppo spesso, cattolici ma anche sacerdoti, anche vescovi, non credono nella forza della parola di Dio”. Una risposta coraggiosa, realistica, ma anche tanto tanto inquietante. Da allora, ovviamente, si è verificato un notevole mutamento.

Dove vede le resistenze più forti?

“A confermare che c’è ancora gente che rema contro, e respinge gli inviti wojtyliani al coraggio del cambiare – quindi, messi insieme, i “paurosi” di ieri e i “paurosi” di oggi – basterebbe notare la lentezza e la macchinosità con cui procede la riforma delle istituzioni nella Curia romana. Così come basterebbe notare la disastrosa carenza di collegialità episcopale, ch’è stata sicuramente una delle cause all’origine della drammatica questione dei preti pedofili”.

Torniamo alla fumata bianca alla cappella Sistina. Quale fu lo “scandalo”?

“Il primo Papa non italiano dal tempo dell’olandese Adriano VI, dopo quattrocentocinquantasei anni. Dunque, la fine di quel rapporto strettissimo che, dopo il Concilio di Trento, si era instaurato tra il papato e l’Italia. Come dire, la fine del monopolio italiano (andato avanti, spesso, solo per la paura di cambiare) sull'elezione pontificia. E, insieme a tutto questo, il primo Papa slavo, polacco. Un Papa che veniva da dietro la “cortina di ferro”,dall’ altra Europa, dominata dal regime comunista. C’era ancora la Guerra fredda.C’erano ancora due superpotenze, Urss e Usa, che si contendevano il potere sul mondo.

Karol Wojtyla si aspettava di diventare Papa?

“In conclave, quando si stava delineando una scelta maggioritaria su Wojtyla, il cardinale Stefano Wyszyński, primate polacco, era andato da lui, nella sua cella, a confortarlo, a sostenerlo. “Se ti eleggono – gli aveva detto – ti prego: non rifiutare. Devi accompagnare la Chiesa al terzo millennio”. Non solo, ma Wyszyński gli aveva anche chiesto di assumere lo stesso nome di papa Luciani: in memoria del pontefice defunto e, aveva aggiunto, per rispetto del popolo italiano che già tanto amava Giovanni Paolo I (Wyszyński, in verità, era preoccupato per l’accoglienza che avrebbe potuto avere un Papa non italiano da parte degli italiani. Lo fece capire anche a me, dopo il conclave, quando andai a salutarlo:”Mi raccomando, lei che scrive su un giornale di Roma, lo aiuti, lo aiuti…”). E comunque, Wojtyla era ritornato nella Cappella Sistina con il volto sereno, più disteso, ma con il cuore in tumulto. Se da un lato, quell’invito del primate, così forte, accorato, lo aveva spinto ad accettare, dall’ altro lo aveva messo ancor più in agitazione. Immaginava, senza andar troppo lontano dal vero, che la sua provenienza, il suo venire da “fuori”, avrebbe messo in allarme non pochi ambienti del mondo vaticano”.

 

 

 

 

 

 

 

Giacomo Galeazzi: