Sono finiti sotto inchiesta altri 15 alti funzionari dal Partito comunista del Tibet, con l’accusa di aver lavorato di nascosto per l’indipendenza della regione, “fornendo dati sensibili al governo in esilio e mostrando fedeltà al Dalai Lama”, secondo il Partito “le loro azioni hanno messo in pericolo la sicurezza nazionale”. La conferma viene dal Global Times, quotidiano in lingua inglese collegato al governativo People’s Daily.
Secondo il rapporto presentato dal Segretario locale Wang Gang relativo al 2014, oltre 240 persone sono state punite dal Partito per aver infranto “regole di sicurezza interna”, ma le accuse fanno molto discutere. Infatti il progetto si inserisce in quello più ampio che è diventato il cavallo di battaglia del presidente Xi Jinping, ovvero la lotta alla corruzione: ha dichiarato infatti di voler cacciare “le tigri e le mosche”, cioè i funzionari di ogni grado, che prendono tangenti.
Ma il Tibetan Centre for Human Rights and Democracy, che ha base a Dharamsala dove si trovar il leader buddista tibetano e del governo in esilio, spiega che da novembre questa campagna si è concentrata su coloro che seguono il Dalai Lama. Il capo del gruppo di ispettori Ye Dongson ha infatti chiarito di voler punire i funzionari “che non hanno una posizione politica ferma”, non soltato i corrotti. Dare credito a un leader buddista, anche solo dal punto di vista religioso viene considerato un atto separatista, ma, come fa notare l’ong International Campaign for Tibet, “ogni azione relativa all’identità locale che non sia organizzata dal governo locale viene considerata separatista”. Il gruppo per i diritti umani conclude: “Il Partito farebbe un servizio migliore punendo davvero i corrotti e lasciando in pace i fedeli buddisti”.