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La spinosa la questione degli insediamenti israeliani in Palestina

L’esistenza delle colonie, unitamente alla barriera di separazione israeliana, ha determinato la frammentazione del territorio palestinese in 165 «isole». L'analisi della questione palestinese de L'Osservatore Romano

La questione palestinese dal 1948 ai giorni nostri spiegata dalla giornalista Betarice Guarrera dalle colonne de L’Osservatore Romano. Riportiamo l’articolo integralmente.

Insediamenti israeliani: violazione del diritto internazionale?

Oltre la barriera di separazione israeliana, lunga oltre settecento chilometri, all’interno del territorio palestinese, tra i villaggi arabi e gli alberi di ulivi, spiccano con chiarezza squadrati agglomerati urbani dall’architettura moderna. Sono gli insediamenti israeliani, dei quali alcuni sono esplicitamente autorizzati dal governo israeliano e altri tollerati. Dotati di scuole, negozi, strade speciali, che si possono percorrere solo con una macchina con targa israeliana, sono considerati illegali dal governo palestinese e dal diritto internazionale, con qualche controversia.

«Gli insediamenti sono una flagrante violazione del diritto internazionale. Costituiscono un grave ostacolo alla realizzazione di una soluzione praticabile a due Stati e di una pace giusta, duratura e globale». Farhan Haq, portavoce aggiunto del Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, affermava così lo scorso 19 giugno, riportando il pensiero di Guterres in seguito alla decisione di Israele di costruire nuove unità abitative in Palestina.

Una posizione netta quella dell’Onu che, a distanza di tempo e ad oltre un mese dall’inizio della guerra con Israele, si carica di nuovi significati.

La spinosa questione degli insediamenti israeliani

Per capire come mai risulta così spinosa la questione degli insediamenti israeliani in Palestina, bisogna riavvolgere il nastro della storia e tornare al 1948 e alla guerra che seguì la risoluzione Onu 181 (29 novembre 1947) per la spartizione della Palestina mandataria in due stati. Per gli israeliani è l’anno della proclamazione dello Stato d’Israele; i palestinesi lo ricordano, invece, come la “nakba”, «la catastrofe», e dunque la distruzione e lo spopolamento di circa 400 villaggi (con il conseguente dramma di oltre settecentomila profughi palestinesi). Quella della della terra è dunque una questione chiave del conflitto israelo-palestinese, che dalle origini ad oggi si gioca anche su pochi centimetri di territorio.

Secondo quanto afferma Amnesty International, furono tre i principali atti legislativi che costituirono il nucleo del regime fondiario israeliano e che svolsero un ruolo importante in questo processo: l’ordinanza britannica per la terra (Acquisizione a scopo pubblico) del 1943, che consentiva al ministro delle Finanze di espropriare terreni per qualsiasi scopo pubblico; la legge sulla proprietà degli assenti (legge sul trasferimento della proprietà) del 1950; la legge sull’acquisizione di terre del 1953, che ha «legalizzato» retroattivamente l’esproprio delle terre di cui lo stato e l’esercito israeliano avevano preso il controllo, utilizzando i regolamenti di emergenza dopo il conflitto del 1947-’49.

La guerra del 1967

In seguito alla guerra del 1967 lo scenario si complicò ulteriormente. Dopo aver dichiarato vittoria, Israele estese la sua amministrazione sull’intera penisola del Sinai (poi restituita all’Egitto nel 1978), la Striscia di Gaza, i territori della Palestina (compresa Gerusalemme Est), sottratti alla Giordania, e le alture del Golan a nord-est (prima territorio della Siria). Fu in quel momento che nacquero i primi insediamenti, conosciuti anche come «colonie». Pioniere di tale operazione fu il rabbino Moshe Levinger che, con un gruppo di ebrei ultra religiosi, nel 1968 decise di tenere un seder pasquale al Park Hotel di Hebron. Dopo sei settimane trascorse al Park Hotel, il governo decise di trasferire questo gruppo nell’edificio dell’amministrazione militare di Hebron e, dopo oltre un anno, lo stesso divenne poi il nucleo fondante della colonia israeliana di Kiryat Arba. L’importanza di Hebron, sacra per gli ebrei in quanto conserva quella che è considerata la tomba dei patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe, Sara, Rebecca e Lea), rese la città teatro di rivendicazioni e violenze quotidiane che continuano fino ai nostri giorni.

Il ricorso all’Alta Corte di Giustizia israeliana

Dopo il 1967, Israele iniziò un processo di acquisizione di alcuni territori palestinesi, motivato inizialmente da «scopi militari». Nel 1979 però un gruppo di palestinesi decise di fare ricorso all’Alta Corte di Giustizia israeliana (HCJ) per fermare un ordine di sequestro di terreni di proprietà privata palestinese vicino a Nablus, destinati a fondare l’insediamento israeliano di Elon Moreh. I giudici stabilirono che il sequestro della terra era determinato a servire uno scopo civile (insediamento di coloni) invece che militare e che quindi violava il diritto internazionale. Israele pianificò dunque nuovi insediamenti solo su terreni dichiarati demaniali. Successivamente, però, introdusse una nuova interpretazione del Codice fondiario ottomano (che regolava la proprietà fondiaria), per dichiarare demaniale anche quella che, sotto il dominio britannico e poi giordano, era considerata proprietà privata o collettiva palestinese. Una delle richieste fatte ai palestinesi, come prerequisito per acquisire diritti di proprietà su alcuni terreni agricoli, era per esempio di dimostrare che venissero regolarmente coltivati. Un’indagine comparativa, condotta dalla organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem nell’area di Ramallah, ha rivelato enormi differenze tra la quantità di terra che la Giordania definiva proprietà del governo, e la quantità di terra che Israele dichiarava terra statale, in aree che i giordani non erano riusciti a registrare prima del 1967.

Sull’esempio dei primi coloni di Hebron, sono migliaia i civili israeliani di diversi gruppi militanti ultra religiosi o di estrema destra che continuano, ogni anno, a fondare piccoli avamposti in Palestina. Gli insediamenti sono solitamente circondati da forti recinzioni e sono difesi, spesso, dagli stessi coloni, dotati di armi da fuoco. Questi civili armati occupano territori nella notte, impediscono il passaggio ai palestinesi, controllano le risorse idriche e poi costruiscono case e strade, nella speranza che il governo israeliano le riconosca come colonie. Gli insediamenti, creano, infatti, ciò che gli israeliani definiscono «nuovi fatti sul terreno», che fondano le radici di una comunità ebraica in territorio palestinese.

A motivare questi coloni sono talvolta argomenti religiosi, come la credenza che la terra, promessa da Dio agli ebrei nella Torah, si estenda a tutto il territorio dell’antica terra d’Israele. Secondo alcuni israeliani, la presenza delle colonie sarebbe uno strumento per garantire un controllo permanente sul territorio e, dunque, maggiore sicurezza. Altri sostengono invece che la convenienza economica spingerebbe gli ebrei a stabilirsi negli insediamenti, dati i cospicui incentivi statali forniti.

L’esistenza delle colonie, unitamente alla costruzione della barriera di separazione israeliana, ha determinato, negli anni, la frammentazione del territorio palestinese, concentrato in 165 «isole». Questa frammentazione si è sovrapposta alla divisione territoriale seguita agli Accordi di Oslo, che ha determinato la costituzione di tre aree: area A, amministrata dal governo palestinese, area B, sotto controllo civile palestinese e controllo congiunto di sicurezza israelo-palestinese e area C, sotto l’amministrazione israeliana. In questo contesto complesso, la vita quotidiana in Palestina, nei luoghi dove sorgono le colonie, è tristemente distinta da un clima ostile, che sfocia a volte in atti di violenza da parte dei coloni. Una violenza che è cresciuta a dismisura dal 7 ottobre.

Fonte: L’Osservatore Romano

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