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Ratzinger: “In Europa crisi dell'uomo prima che delle istituzioni”

La crisi dell'Europa prima ancora di essere politica, degli Stati e delle sue istituzioni, è una crisi dell'uomo. La crisi è innanzitutto antropologica. Un uomo che ha perso ogni riferimento di fondo, che non sa più chi è”, ha detto il Papa emerito Benedetto XVI in una conversazione con Il Foglio. La ragione priva della fede rischia di implodere. Una tematica cara a Benedetto XVI, che già occupava un posto importante nell’enciclica Fides et ratio (1998) di Giovanni Paolo II, alla quale certamente l’allora cardinale Joseph Ratzinger diede il suo contributo. La ferrea volontà di trasmettere la tradizione apostolica espose Benedetto XVI alle polarizzazioni ideologiche delle opposte correnti: da un lato i puristi della fede contrari a qualunque apertura alla modernità e dall’altro i fautori di un continuo aggiornamento di forme e contenuti dell’appartenenza religiosa. L’inflessibile fedeltà alla dottrina che lungo quattro decenni trasformò Joseph Ratzinger nell’emblema dell’ortodossia cattolica fu motivo di incomprensioni e opposte forzature nella pubblicistica e sui mass media. Sotto il fuoco incrociato delle critiche finirono persino i sontuosi paramenti liturgici indossati nelle celebrazioni o la scelta di presentarsi pubblicamente ai fedeli sempre abbigliato in modo solenne, con uno stile e un atteggiamento umile ma rigoroso e sacrale.

Una sobria e distaccata sobrietà

Se nella Roma antica la moglie di Cesare non era tenuta solo a essere seria ma anche ad apparire tale, secondo Joseph Ratzinger il Papa non doveva solo essere Papa, ma anche mostrarsi Papa nel contegno e nel rigore del suo proporsi nelle sembianze esteriori come fossero il riflesso di un imperturbabile ordine spirituale, interiore. Un modo di rapportarsi al mondo circostante solidamente ancorato alla tradizione e a una sobria e distaccata alterità rispetto alle mutevoli e fugaci sensibilità estetiche della contemporaneità, in linea con una ricercatezza formale che non disdegnava capi di abbigliamento e accessori desueti, bollati come eccessivamente leziosi e antimoderni, come i pastorali ottocenteschi e le scarpe rosse. Mai nessuna concessione a sciatterie demagogiche, pose terzomondiste, ostentazioni di trascuratezza pauperista. Insomma, un Papa difensore delle verità di fede e attento a esprimere anche nell’abito il senso della propria missione e il prestigio di una storia bimillenaria. A tutto tondo un “custode della dottrina”. Il “depositum fidei” è l’espressione del linguaggio teologico (ripresa da alcuni passi delle lettere di San Paolo a Timoteo) con cui viene indicato il contenuto integrale della fede cristiana che da Cristo e dagli apostoli è stato affidato al magistero ecclesiastico per essere custodito, sviluppato e, nella sua inalterata purezza, trasmesso di generazione in generazione. Come obiettivo la salvaguardia del “depositum fidei”. E cioè delle verità di fede. Migliaia di testi scritti e di discorsi pronunciati in pubblico da Joseph Ratzinger hanno offerto in qualunque circostanza e contesto la limpida testimonianza di una ferrea volontà di difesa della retta dottrina.

Predicazione autenticamente universale

Nell'omelia di Natale del 1978, per esempio, Joseph Ratzinger tracciò quasi un programma di azione pastorale per il cattolicesimo mondiale, fissando le tappe dell'azione evangelizzatrice e parlando da difensore dei dogmi e regista “in pectore” di una predicazione planetaria. Insomma parlò da catechista del mondo, da maestro di dottrina con una visione e una determinazione a chiarire ciò che è decisivo per consentire l’annuncio efficace e coerente del Vangelo. “La Chiesa, nel corso del suo anno liturgico, ripercorre l’intera storia della salvezza – disse il futuro Benedetto XVI -. Per molte settimane si presenta a noi con l’atteggiamento di Osea o di Elia: e cioè ammonendoci, scuotendoci, esortandoci, volendo strapparci dal nostro egoismo, dalla nostra avidità, dal nostro autocompiacimento. Ma nell’Avvento giunge l’ora del Dio buono, del Dio che consola. Diviene evidente che la Chiesa non è solo un’agenzia morale, un’organizzazione umanitaria, che essa non esige solo il rispetto di vari precetti, indica bisogni e pone richieste, ma che è lo spazio della grazia, in cui Dio le va incontro soprattutto come colui che dona e che dà”.  E, aggiunge Joseph Ratzinger, “Dio non ci ha tolto la nostra umanità, ma la condivide con noi, egli è entrato nella solitudine dell’amore distrutto come uno che condivide il dolore, come consolazione: questo è il modo divino della redenzione”. Quindi, precisa Ratzinger, “possiamo capire nel modo migliore che cosa significhi cristianamente redenzione a partire da qui: non trasformazione magica del mondo, non che ci viene tolta la nostra umanità, ma che siamo consolati, che Dio condivide con noi il peso della vita e che ormai la luce del suo condividere l’amore e il dolore sta per sempre in mezzo a noi”. Un discorso, quello del Natale del 1978, di cristallina teologia, nella mite e responsabile consapevolezza dei ruoli sempre più fondamentali che di lì a poco gli sarebbero stati affidati al vertice delle gerarchie ecclesiastiche, prima a Monaco di Baviera, poi in Curia e, infine, addirittura, sul Soglio di Pietro.

A difesa della vita e della famiglia

Dalle vette astratte della ricerca accademica, del pensiero filosofico e della riflessione su Dio al meno teorico e più pragmatico vertice della piramide vaticana. Uno dei luoghi comuni più persistenti ma meno veritieri sull’azione pastorale di Benedetto XVI riguardò fin dall’inizio del suo pontificato una sorta di ossessiva e reazionaria predilezione per i temi bioetici (difesa della vita, della famiglia, della libertà di educazione) a scapito di quelli sociali (lavoro, accoglienza, uguaglianza, Welfare). Insomma, un Papa che, per evangelizzare a colpi di dottrina, avrebbe trascurato l’impegno solidale della Chiesa guardandosi dallo schierare il mondo cattolico contro l’iniqua distruzione delle ricchezze su scala planetaria e a salvaguardia degli ultimi. Per sfatare il mito fallace di un Ratzinger disinteressato alle questioni sociali, scese in campo, nel febbraio 2014, la Compagnia di Gesù.  Su Aggiornamenti Sociali, la rivista internazionale che da sessant’anni incrocia fede cristiana e giustizia negli snodi cruciali della vita politica ed ecclesiale, padre Henri Madelin, ex provinciale dei gesuiti in Francia, ristabilì la verità storica fugando le falsità e ribaltando definitivamente lo stereotipo della presunta indifferenza di Ratzinger per la dottrina sociale della Chiesa. “Del Papa che ha stupito il mondo con la propria rinunzia al pontificato si sottolineano per lo più la grande cultura e la predilezione a trattare questioni riguardanti la Chiesa cattolica, il contenuto dei suoi dogmi e la sua collocazione tra le altre Chiese. – sottolineò Madelin -. Poiché, prima di accedere al pontificato, il cardinale Ratzinger ha a lungo presieduto la Congregazione per la dottrina della fede, se ne ricordano i moniti contro le interpretazioni da lui giudicate contrarie a una certa “ortodossia romana”.

Un apporto originale

Si rammentano i suoi contrasti e i suoi richiami all’ordine nei confronti dei sostenitori di vari filoni della teologia della liberazione in America latina. La figura di Benedetto XVI non sembra dunque avere una particolare connotazione sociale”. Secondo il gesuita, però, “questa immagine è incompleta, in quanto trascura l’apporto originale di Papa Joseph Ratzinger alla dottrina sociale della Chiesa, cioè il fatto di inserirla all’interno di una visione globale e personale che attinge l’essenziale delle sue risorse nei tesori della teologia”. “Questo pensiero”, secondo Madelin, “può essere di sostegno ai cattolici, ma corre il rischio di sconcertare i fedeli di altre tradizioni e tutti coloro che si dichiarano emancipati da convinzioni religiose”. “In questo senso”, prosegue l’ex provinciale dei gesuiti in Francia, “Benedetto XVI ha dato una sua impronta alla dottrina sociale della Chiesa, specialmente con la pubblicazione, il 29 giugno 2009, dell’enciclica “Caritas in veritate”: in essa egli si rivela un analista acuto dei meccanismi di funzionamento della società, ma la sua originalità si manifesta ancora di più nella preoccupazione costante di sottolineare la dimensione antropologica e teologica dei problemi che l’umanità si trova ad affrontare in un periodo di crisi che si inserisce in una dinamica di globalizzazione galoppante”.  Già la prima enciclica di Benedetto XVI, “Deus caritas est” (2005), insisteva sul rapporto tra giustizia e carità, sui compiti diversi che spettano alla Chiesa e alla politica, sul posto e sul ruolo dei laici cristiani nelle organizzazioni della società civile.

Modello di cooperazione

“Nell’attuale clima secolarizzato, i laici sono invitati a conciliare esigenze che non sempre sono armonizzate: competenza professionale, rifiuto di piegarsi al giogo delle ideologie, audacia nel proclamare la propria fede, ripulsa di ogni proselitismo – evidenzia Madelin -.  Dopo la pubblicazione, nel 2007, dell’enciclica “Spe salvi”, dedicata alla speranza, nel 2009 Benedetto XVI pubblica la “Caritas in veritate”, lettera enciclica sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità. La preparazione di questo documento, originariamente previsto per celebrare il 40° anniversario della Populorum progressio di Paolo VI (1967), è stata laboriosa”. E in effetti, prosegue il saggista di Aggiornamenti sociali, “parecchi progetti preparatori sono stati abbandonati per l’esigenza di adattare il contenuto alla nuova situazione creata dalla crisi globale, ma il documento, che ha avuto risonanza nel mondo intero, non è tanto una analisi della crisi quanto una visione filosofica e, soprattutto, teologica delle carenze e degli errori che hanno condotto al blocco”.

Sussidiarietà e solidarietà

Secondo Madelin, “il Papa parla più del 'perché' che del 'come'”, facendo appello alle esigenze della coscienza piuttosto che proponendo ricette. Ratzinger sottolinea che una parte dei disordini attuali deriva da una pericolosa finanziarizzazione dell’economia e da una sofisticazione degli strumenti monetari, che richiedono un intervento politico di regolazione più deciso: un atteggiamento coraggioso che rompe con gli inni encomiastici intonati dai fautori dell’iperliberalismo – evidenzia Madelin -. Quando ne avverte il bisogno, non esita a denunciare carenze ed emergenze della situazione planetaria: ne fa fede il tono della lettera indirizzata all’allora primo ministro britannico Gordon Brown alla vigilia del G20 di Londra, nell’aprile 2009. Sulla scia dei suoi predecessori, a partire da Giovanni XXIII e dalla sua enciclica Pacem in terris (1963), Benedetto XVI riafferma nella Caritas in veritate la necessità di istituire una vera autorità politica mondiale, anche se in un modo forse ancora troppo sobrio”. Il documento, infatti, propone “più il modello della cooperazione tra i governi che l’integrazione tra le nazioni, prendendo come riferimento implicito l’Onu più che l’Unione europea”, ma le caratteristiche di questa autorità mondiale, quale è richiesta dalla Caritas in veritate, esprimono grandi esigenze. E cioè “una simile autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità”.

Due correnti

Sono due correnti che polarizzano il cattolicesimo dal Concilio in poi: chi vorrebbe una Chiesa tutta carità, quasi una Ong della solidarietà globale e chi invece delimita la missione ecclesiastica al recinto sacro di dogmi, sacramenti, liturgia e riti. Anche da questa contrapposizione di visioni deriva l’errata interpretazione della figura di Joseph Ratzinger in termini di esclusiva attenzione al piano spirituale senza e di scarsa sollecitudine per le questioni sociali. In realtà Benedetto XVI scelse una “terza via” per incidere con la fede nel mondo senza piegarsi ad esso né scendere a compromessi con le utilitaristiche logiche mondane della contemporaneità secolarizzata. Ratzinger si occupò di “politica” in senso alto del termine, nella convinzione che toccasse ai cattolici non far diventare lettera morta il Vangelo, testimoniandolo nella quotidianità della vita privata e di quella pubblica. “La missione che Benedetto XVI si attribuisce non è quella di collocarsi sul terreno proprio dei responsabili politici, degli imprenditori, dei banchieri, ma quella di ridestare le coscienze alle sfide del presente che non possono restare circoscritte a livelli puramente tecnici – commenta padre Madelin -. L’intento è più una interpretazione teologica che una analisi descrittiva. Per questo l’enciclica Caritas in veritate, documento lungo e denso, parla dall’inizio alla fine di amore, di verità, di senso di responsabilità. Indirizzata alle varie componenti della Chiesa cattolica, ma anche a tutti gli uomini di buona volontà, essa li invita a concentrarsi sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”.

Un’opera di apertura e discernimento

Secondo Joseph Ratzinger si tratta di compiere un’opera di apertura e di discernimento: “L’umanità deve ormai uscire da ottiche troppo anguste per gettare le basi di una nuova sintesi umanistica”. Collocarsi in una simile prospettiva significa per Benedetto XVI “non escludere nessuno a priori e invocare la necessità di un dialogo senza frontiere”. Osserva Madelin: “Teologo, accademico di grande valore, il Papa dà inizio al suo discorso elevando il dibattito a dimensioni ignorate o rifiutate nel mondo attuale, quando parla di una eternità di Dio presente nel nostro mondo e nel cuore di ognuno. E infatti fin dalle prime righe la Caritas in veritate precisa ciò che si deve intendere per coniugazione tra amore e verità”.  L’amore (caritas) è, secondo Benedetto XVI, “una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace”. È “una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta”. Dunque “difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono forme esigenti e insostituibili di carità”. Per questa radice teologica unitaria, carità e verità non possono mai essere disgiunte. La scelta di campo di Joseph Ratzinger è inequivocabile: “Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo, l’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano e universale”. Perciò, secondo Benedetto XVI, “la carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa, è il portale di accesso alla comprensione di Dio, degli altri e del mondo, è il principio non solo delle micro-relazioni (rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo), ma anche delle macro-relazioni (rapporti sociali, economici, politici)”.

Il principio di gratuità

A giudizio di Joseph Ratzinger “perché ritorni la fiducia, figlia dell’amore, occorre non vedere l’economia globalizzata come una fatalità, a condizione che essa esca dal proprio autismo e accetti al proprio interno la logica del dono senza contropartita”. Ancora più fondamentalmente, “nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica”. Benedetto XVI, da come ricostruisce Madelin, propose sostanzialmente di eliminare i compartimenti stagni tra terzo settore (caratterizzato dall’assenza di lucro), imprese (votate all’efficienza) e Stato (preposto alla ridistribuzione), al fine di creare nuove sinergie, di cui l’economia solidale fosse un esempio fecondo. Da parte sua, poi, la fede può soffrire di patologie proprie, se è priva del soccorso della ragione. Benedetto XVI ribadì il punto: “La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità”.

L’alleanza tra fede e ragione

Nel discorso tenuto al Parlamento tedesco il 22 settembre 2011, Benedetto XVI invitò i parlamentari a riflettere sulle finalità dell’agire politico e sulle forme di legittimità necessarie per elaborare leggi in un’epoca di pluralismo. Parlò anche di quella legge naturale che è nel fondo del cuore di ogni uomo, impronta negli esseri umani della legge eterna di Dio. Attingendo alle risorse della filosofia e della teologia, Benedetto XVI riuscì ad approfondire rischi e prospettive dell’universo globalizzato. “Senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori, talora nemmeno i significati, con cui giudicarla e orientarla – spiegò Benedetto XVI -. Al di là delle scienze e delle tecniche, una vita morale autentica e una spiritualità incarnata hanno più che mai bisogno di un'alleanza duratura tra fede e ragione. La ragione senza la fede si smarrisce, come la fede senza la ragione si atrofizza”. Se è totalmente falsa l'immagine di un Papa reazionario, poco attento alla giustizia sociale e più preoccupato della povertà spirituale del mondo che di quella materiale, altrettanto mendace sarebbe classificare il pontificato di Joseph Ratzinger come il trionfo del tradizionalismo. Anzi, alcune tra le più aspre critiche al professore bavarese arrivarono dal filone più identitario del cattolicesimo.

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