Joseph Ratzinger verrà ricordato come il primo Papa in sei secoli ad essersi dimesso. C’è un altro passo d’uscita, in questo caso scongiurato in extremis da Karol Wojtyla, nella vita di Ratzinger. Il 16 aprile 2002 è un martedì e sulla scrivania di Giovanni Paolo II c’è una busta non gradita all’anziano Pontefice. Si tratta delle dimissioni del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede che quel giorno compie 75 anni, l’età canonica del collocamento a riposo per i responsabili delle diocesi e dei dicasteri vaticani. E’ un atto dovuto in base alle leggi in vigore nella Chiesa universale che regolamentano il pensionamento dei presuli. La norma era stata introdotta nel 1966 da Paolo VI che chiedeva di presentare “spontaneamente” la rinuncia all’ufficio. Fu poi nel 1988 la Costituzione apostolica della Curia Romana “Pastor bonus” di Giovanni Paolo II a stabilire che i cardinali di Curia sono “pregati” di presentare le proprie dimissioni quando compiono 75 anni. E un vescovo, quando raggiunge quell’età, automaticamente decade anche da ogni altro “ufficio a livello nazionale”.
Rispetto delle regole
Come è avvenuto sempre nella sua vita, Joseph Ratzinger rispettò fedelmente le regole. Ma Karol Wojtyla, già molto affaticato dalla malattia, non aveva alcuna intenzione di rinunciare al suo più autorevole collaboratore nel governo centrale della Chiesa. Anzi, vedeva in lui il più accreditato e auspicabile dei propri possibili successori in una futura stagione che profeticamente intuiva particolarmente complicata. Dopo un pontificato durato un quarto di secolo, tutti i potenziali “delfini” erano usciti di scena e Giovanni Paolo II vedeva nel suo supremo teologo una risorsa di cui la Chiesa non poteva privarsi. L’intenzione di Joseph Ratzinger, invece, era quella di tornare in Germania e dedicarsi gli anni della pensione agli studi di teologia. Il modo più coerente e intimamente gratificante di concludere il suo “cursus honorum”, sempre in spirito di servizio e dedizione al Vangelo.
Le ragioni del no di Wojtyla
Perché Giovanni Paolo II avesse respinto le dimissioni del cardinale Ratzinger contravvenendo le stesse regole da lui fissate per il collocamento a riposo dei porporati curiali lo si sarebbe capito dall’approccio collaborativo e paterno con cui Joseph Ratzinger avviò il suo pontificato. “Conosceva benissimo le difficoltà alle quali andava incontro dopo la fumata bianca e sapeva perché Giovanni Paolo II pensasse a lui come naturale prosecutore del proprio Magistero”, spiega uno stretto collaboratore di Benedetto XVI. Un episodio tra tanti aiuta a capire l’approccio di Joseph Ratzinger al ministero petrino. A volte, infatti, il senso delle cose grandi o il tratto distintivo di una personalità complessa può affiorare nitidamente da avvenimenti in apparenza minori. E così capita che una chiave di lettura per comprendere un pontificato carico di eventi sorprendenti e di profondi significati come quello di Benedetto XVI (al timone della barca di Pietro dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013) emerga da una delle tante udienze di routine che scandiscono l’agenda quotidiana di un Pontefice. Mancavano pochi giorni al Natale del 2006, il secondo di Joseph Ratzinger sul soglio petrino e, a essere ricevuta nell’Aula Nervi, è comunità Villa Nazareth per ricordare i 60 anni dalla fondazione a Roma della residenza universitaria cattolica per gli studenti poveri e meritevoli. A presiedere la struttura e a guidare la delegazione in visita al Papa è uno dei più fini diplomatici per decenni al servizio della Santa Sede, il cardinale Achille Silvestrini, che alcuni giornali avrebbero in seguito descritto come sostenitore della cordata di conclavisti favorevoli all’elezione di un candidato “progressista” in opposizione al “tradizionalista” porporato tedesco poi uscito dalla Cappella Sistina il 19 aprile 2005 con i paramenti sacri di Papa della Chiesa cattolica.
Personale testimonianza
Benedetto XVI, che l’11 febbraio 2013 sconvolgerà il mondo annunciando in latino la sua rinuncia al ministero di vescovo di Roma, accolse con la paterna cordialità del pastore i suoi ospiti, pronunciando parole affettuose, scegliendo espressioni di sincera ammirazione, tutt’altro che di circostanza. “Villa Nazareth, che ha accolto nei trascorsi sessant’anni diverse generazioni di fanciulli e giovani, si propone di valorizzare l'intelligenza dei suoi alunni nel rispetto della libertà della persona, orientata a vedere nel servizio degli altri l’autentica espressione dell'amore cristiano”, riconobbe affettuosamente. E poi aggiunse alcune considerazioni che sintetizzano il mandato che Joseph Ratzinger affidava a ciascun credente dandone lui stesso personale testimonianza: “il coraggio delle decisioni”. “Villa Nazareth”, sottolineò il Pontefice, “vuole formare i suoi giovani al coraggio delle decisioni, in un atteggiamento di apertura al dialogo, con riferimento alla ragione purificata nel crogiuolo della fede”. Lette alla luce del suo ricchissimo percorso nel cuore e al vertice della Chiesa uscita dal Concilio Vaticano II, le riflessioni rivolte da Joseph Ratzinger ai membri della comunità di Villa Nazareth risuonano come un folgorante compendio di umanesimo fondato sul Vangelo. “La fede è in grado di offrire prospettive di speranza ad ogni progetto che abbia a cuore il destino dell'uomo”, spiegò Benedetto XVI. “La fede scruta l’invisibile ed è quindi amica della ragione che si pone gli interrogativi essenziali da cui attende senso il nostro cammino quaggiù. La parola di Dio richiede un ascolto attento e un cuore generoso e maturo per essere vissuta in pienezza”.
Scarsa abitudine ai riflettori
Da professore di dottrina abituato più alla penombra delle biblioteche e ai colloqui individuali con gli studenti che agli interventi pubblici sotto i riflettori di un palco, l’ex perito conciliare affermò che “i contenuti della rivelazione di Gesù sono concreti” e che “un intellettuale cristianamente ispirato deve sempre essere pronto a comunicarli quando dialoga con coloro che sono alla ricerca di soluzioni capaci di migliorare l'esistenza e di rispondere all'inquietudine che assilla ogni cuore umano”. E qui, nel breve volgere di poche, densissime meditazioni, si fece largo la profonda vocazione di Joseph Ratzinger e cioè la necessità irrinunciabile di “mostrare la corrispondenza che esiste tra le istanze che emergono dalla riflessione sulle vicende umane e il Logos divino”. In questo modo, infatti, “si crea una convergenza feconda tra i postulati della ragione e le risposte della Rivelazione e proprio di qui scaturisce una luce che illumina la strada su cui orientare il proprio impegno”. Un momento di “ordinaria amministrazione” che dimostrò quanto avesse visto giusto Giovanni Paolo II nel 2002 a non accettare la richiesta dell’aspirante pensionando cardinal Ratzinger, capace di mediare meglio di chiunque altro tra differenti sensibilità curiali.
Ciò che li univa
Le ragioni della profonda sintonia e della totale convergenza di visioni tra il Pontefice polacco e il suo braccio destro teologico meritano di essere analizzate in modo accurato perché hanno segnato in modo indelebile gli ultimi quattro decenni di storia ecclesiastica. Giovanni Paolo II aveva letto tutti i libri di Joseph Ratzinger in versione originale e lo conosceva molto bene. Con la sua scelta dimostrò eccellenti doti di comando. Il futuro Benedetto XVI lo completava perfettamente, impersonava tutto quello che non era lui. Non c’erano persone più diverse del polacco sportivo e del gracile bavarese, del carismatico ed estroverso Giovanni Paolo II, un “papa da toccare”, che voleva abbracciare tutto il mondo, mentre l’altro era un uomo tranquillo, introverso, sensibile, timido. Uno era un mistico e un poeta, l’altro un teologo dedito all’analisi. Il grande cuore della chiesa e il suo acuto intelletto: le debolezze dell’uno erano i punti di forza dell’altro. Studiarne i motivi profondi richiede il supporto di un prelato che li ha conosciuti bene entrambi e che, con mezzo secolo di missione tra i giovani e una serie di creative intuizioni pastorali ha accompagnato i due pontificati.
Legati da Sant’Agostino
Monsignor Giancarlo Vecerrica, allievo e collaboratore di don Luigi Giussani, è stato vescovo di Fabriano-Matelica ma soprattutto ha inventato la marcia studentesca Macerata-Loreto alla quale Giovanni Paolo II si è ispirato per ideare nel 1984 la Giornata Mondiale della Gioventù. Pochi meglio di lui possono svelare il legame indistruttibile che unì Wojtyla e Ratzinger. Un prezioso contributo di conoscenza che deriva dalla personale e diretta esperienza sul campo. Il sodalizio d’acciaio tra il Papa polacco e il Prefetto bavarese dell’Ex Sant’Uffizio ha radici teologiche e storiche. “Hanno condiviso Sant'Agostino, maestro privilegiato di entrambi, soprattutto nel loro apostolato di pontefici”, osserva Vecerrica. “Dall’approfondimento di Sant’Agostino derivarono i riferimenti ai temi della fede, della ragione, della verità e dell'amore. E all'interno del discorso sull'intelligenza e sulla verità della fede si trova sempre strettamente legata la verità dell'amore ovvero il conoscere sempre più colui che ama, cioè Gesù”. Due i principali aspetti che, secondo il vescovo marchigiano, collegarono sempre Wojtyla e Ratzinger nel pensiero e nell’azione: da un lato, la teologia che deve preoccuparsi del dialogo tra e con ogni uomo nella ricerca della verità, dall’altro, deve sempre tendere verso la profondità interiore della fede. Dunque “un aspetto orizzontale e uno verticale dove entrambi parlano dell'uomo, e di Dio”. “La sintonia tra i due pontefici”, prosegue Vecerrica,”si basa sulla ferrea convinzione che la teologia non è solo una riflessione metodica e ordinata circa le questioni della religione e del rapporto dell’uomo con Dio”. “In tal modo”, secondo Vecerrica, “si arriva solo alle scienze religiose e invece per Wojtyla e Ratzinger la teologia vuole e dev’essere qualcosa di più e di diverso, deve dedicarsi a quello che ancora nella nostra vita non abbiamo scoperto, quello che con le nostre forze non possiamo raggiungere, ma che per noi è il fondamento della vita umana e spirituale”. Perché, come ha insegnato loro Sant’Agostino nelle Confessioni, Dio è più grande del nostro pensiero e nello stesso tempo è più intimo a noi di noi stessi. “Allora, utilizzando l'adagio teologico “credo ut intelligam”, Il Pontefice polacco e il suo successore tedesco hanno voluto esprimere che “nella teologia io accetto un dono che sì mi precede, ma che mi fa scoprire e comprendere la vita vera, cioè nel vissuto ordinario e quotidiano, cioè nella Chiesa”, sostiene il vescovo che li ha ben conosciuti entrambi e che li affiancati nel loro operato. “Il feeling tra Wojtyla e Ratzinger poggia”, precisa Vecerrica, “sui contenuti essenziali della teologia, ovvero il mistero trinitario di Dio che si rivela nell’affermazione giovannea: Dio è Amore. “Questa affermazione unisce il soggetto (Dio) e l’oggetto della fede (Amore) nei valori essenziali di Gesù, lui è la “Persona incarnata del Lógos”: è questo il tema fondamentale dell'Enciclica “Deus caritas est” uno dei doni più belli del pontificato di Benedetto XVI”, evidenzia il presule.
La comune lezione conciliare
“Inoltre, Wojtyla e Ratzinger hanno sempre voluto unire nella loro teologia sia la cristologia che l’antropologia, senza mai voler dissociare nel loro pensiero Cristo dall'uomo, la verità di Dio che si rivela in Cristo, è Cristo che costituisce la misura di ogni vero umanesimo”. Aggiunge anche che c’è un’assoluta continuità nella successione dei pontificati. “Dal mio amore costruttivo verso i miei tre Papi, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, è fiorita in me la crescita della fedeltà ai due principi, mariano e petrino”, confida Vecerrica. “La fedeltà alla Chiesa passa attraverso la Madonna e il Papa, che mi è donato”. Dalla teologia la sintonia si sposta alle esperienze storiche condivise tra Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: “Entrambi hanno sperimentato al Concilio il respiro universale della Chiesa”, sostiene il vescovo. “In particolare, Ratzinger è stato un fervente sostenitore e artefice della riforma del Vaticano, ha insistito su una ermeneutica della continuità, ovvero una spiegazione del Concilio non attraverso un percorso di rottura ma di continuità (un rinnovamento nella continuità) e ha fortemente voluto che i decreti conciliari non comportassero alcuna alterazione genetica della Chiesa, dei dogmi e della sua dottrina”, aggiunge Vecerrica.
La cortina di ferro
A separare Wojtyla e Ratzinger per i decenni della guerra fredda fu la cortina di ferro. “La storia costrinse sui versanti opposti del muro di Berlino due uomini che saranno amici, fratelli nella fede, successori di Pietro l’uno di seguito all’altro”, evidenzia il vescovo. “Ma la consapevolezza di Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II è la stessa di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Entrambi vivono da Roma gli eventi del 9 novembre 1989 che riuniscono le loro patrie e restituiscono all’Europa la sincronia dei suoi due polmoni: quello occidentale e quello orientale”. Le riflessioni di Ratzinger furono illuminanti al riguardo. “So” scrisse Benedetto XVI nel 2005 all’arcivescovo di Cracovia, Dziwisz, per il 25° anniversario di Solidarność, “che si trattava di una causa giusta e la caduta del Muro di Berlino e l’introduzione nell’Unione Europea dei Paesi che erano rimasti dietro a essa dopo la Seconda Guerra Mondiale, ne è la migliore prova”.
La caduta del Muro
Pensieri in simmetrica sintonia con il suo predecessore. “La caduta del muro”, ebbe a scrivere Giovanni Paolo II, “come il crollo di pericolosi simulacri e di una ideologia oppressiva, hanno dimostrato che le libertà fondamentali, che danno significato alla vita umana, non possono essere represse e soffocate a lungo. L’Europa, il mondo intero, hanno sete di libertà e di pace. Occorre costruire insieme la vera civiltà, che non sia basata sulla forza, ma sia frutto della vittoria su noi stessi, sulle potenze dell’ingiustizia, dell’egoismo e dell’odio, che possono giungere sino a sfigurare l’uomo”. Wojtyla non si limitò a favorire indirettamente l’elezione di Ratzinger come suo successore, respingendo tre anni prima la sua lettera di dimissioni. Ne ispirò decisioni, impostazioni e approccio sin dall’inizio del pontificato. Fin dai primi passi, si delineò, secondo Vecerrica, il profilo di un pastore mite e fermo, intenzionato a servire la verità evangelica, come sintetizzato dal suo stesso motto episcopale: “Cooperatores Veritatis”. Il vescovo che ha creato nel 1978 il pellegrinaggio di preghiera tra Macerata e il santuario mariano di Loreto ricorda, perché era presente, le oltre 300mila persone che affollavano Piazza San Pietro e via della Conciliazione il giorno d’inizio del pontificato. Cita l’omelia, interrotta da moltissimi applausi, che delineò quale sarebbe stato il raggio d’azione nel quale Benedetto XVI si sarebbe mosso: “Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire le mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia”, disse Joseph Ratzinger. E aggiunse: “Chi crede non è mai solo, la Chiesa è viva. E la Chiesa è giovane perché porta in sé il futuro del mondo”. A Vecerrica sembra, quindi, un fatto provvidenziale che il primo viaggio internazionale di Benedetto XVI, programmato dal suo predecessore e mentore Karol Wojtyla, fosse stato proprio per una Giornata mondiale della gioventù, per di più in Germania, sua terra natale. A Colonia, un milione di giovani pregò con il Papa. “Impressionante il raccoglimento con il quale questa moltitudine di ragazzi visse la veglia con l’adorazione eucaristica”, rievoca il vescovo.
Il modo di vivere la Gmg
I giovani del mondo si ritrovarono con il Papa anche a Sydney, nel 2008, e poi a Madrid, nel 2011. Il Pontefice tedesco esortò i giovani a non vergognarsi di essere cattolici e ricordò che solo da Dio veniva la vera rivoluzione, la rivoluzione dell’amore. Cosa rappresentarono per Benedetto XVI le Gmg (l’invenzione più celebre di Wojtyla) fu lui stesso a confidarlo, mentre era in volo verso l’appuntamento di Madrid. “Queste Gmg sono un segnale, una cascata di luce, danno visibilità alla fede, alla presenza di Dio nel mondo e creano così il coraggio di essere credenti”, disse Ratzinger il 18 agosto 2011. “Avendo partecipato alle Giornate Mondiali della Gioventù a Colonia, a Sidney, a Madrid con Papa Benedetto sono stato conquistato dal suo modo di stare con i giovani con una proposta autorevole e con l’accompagnamento paterno”, afferma Vecerrica. “Ricordo quando alla veglia a Madrid venne una forte bufera di vento e pioggia, i cerimonieri tentavano di allontanare il Papa e lui volle rimanere con i giovani in difficoltà”. “Fondamentale, per Ratzinger, era l'evangelizzazione col fine di combattere l’eclissi di Dio nei Paesi di antica tradizione cristiana”, ribadisce il vescovo, richiamando l’attenzione anche sull’incontro di Benedetto XVI con gli artisti nella Cappella Sistina. “Lì lanciò l’idea di un “Cortile dei Gentili”, (iniziativa che verrà poi realizzata dal dicastero della cultura)”, puntualizza Vecerrica. E proprio quel 21 dicembre 2009 Joseph Ratzinger disse: “Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come sconosciuto”. Queste, dunque, sono le comuni radici teologiche, storiche e caratteriali che hanno trasformato il ticket Wojtyla-Ratzinger nella formidabile accoppiata di personalità ecclesiastiche che ha monopolizzato e orientato in modo decisivo quattro decenni di storia della Chiesa universale a cavallo tra i due secoli.
Sintonia di intenti
Una sintonia di visioni e di intenti che, pur nella differenza negli stili di leadership, ha fatto ritenere a molti storici del cristianesimo che i due pontificati vadano considerati come un'unica entità, quasi fossero il primo e il secondo tempo di una stessa epoca ecclesiastica. “Senza il fondamentale contribuito teologico di Joseph Ratzinger non si comprende compiutamente il quarto di secolo nel quale Karol Wojtyla ha retto il timone della Barca di Pietro”, spiega il cardinale Achille Silvestrini. Allo stesso modo e con la stessa intensità di convergenza teologica e di governo della Chiesa, il pontificato di Benedetto XVI appare come la prosecuzione e il completamento di quello del suo predecessore. Sarebbe, però, un grave errore di inquadramento storico dipingere un sodalizio pacificamente accettato dal resto delle gerarchie vaticane. Anzi, gran parte della Curia, largamente ispirata dalle correnti progressiste del post-Concilio, vide subito di cattivo occhio la chiamata a Roma dell'ex perito innovatore divenuto tetragono difensore della tradizione. Con la fama di “frenatore” del Vaticano II, Ratzinger mise piede nel 1981 alla Congregazione della Dottrina della fede. Per spiegare quanto questa nomina fu interpretata come uno schiaffo dai maggiorenti della Curia, occorre ricostruire il particolare e tutt'altro che normalizzato rapporto tra Karol Wojtyla e il gruppo dirigente della Santa Sede dei primi Anni Ottanta. E anche in seguito.