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Papa Francesco: “Siamo chiamati a farci araldi di una diplomazia della speranza”

Il Santo Padre ha ricevuto in Udienza i membri del Corpo Diplomatico e ha richiamato l’importanza del dialogo per promuovere la pace

Questa mattina, alle ore 10 nell’Aula della Benedizione del Palazzo Apostolico, Papa Francesco ha ricevuto in Udienza i Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno.

Le parole del Santo Padre

Ci ritroviamo stamani per un momento d’incontro che, al di là del suo carattere istituzionale, vuole anzitutto essere familiare: un momento in cui la famiglia dei popoli si riunisce simbolicamente attraverso la vostra presenza, per scambiarsi un augurio fraterno, lasciando alle spalle le contese che dividono e per riscoprire piuttosto ciò che unisce. All’inizio di quest’anno, che per la Chiesa cattolica ha una particolare rilevanza, il nostro ritrovarci ha una valenza simbolica speciale, poiché il senso stesso del Giubileo è quello di “fare una sosta” dalla frenesia che contraddistingue sempre più la vita quotidiana, per rinfrancarsi e per nutrirsi di ciò che è veramente essenziale: riscoprirsi figli di Dio e in Lui fratelli, perdonare le offese, sostenere i deboli e i poveri, far riposare la terra, praticare la giustizia e ritrovare speranza. A ciò sono chiamati tutti coloro che servono il bene comune e esercitano quella forma alta di carità che è la politica.

L’importanza del dialogo

Con questo spirito vi accolgo, ringraziando anzitutto Sua Eccellenza l’Ambasciatore George Poulides, Decano del Corpo Diplomatico, per le parole con cui si è fatto interprete dei vostri comuni sentimenti. A tutti voi porgo un caloroso benvenuto, grato per l’affetto e la stima che i vostri popoli e i vostri governi hanno per la Sede Apostolica e che voi ben rappresentate. Ne sono una testimonianza le visite di oltre trenta Capi di Stato o di Governo che ho avuto la gioia di ricevere in Vaticano nel 2024, come pure la firma del Secondo Protocollo Addizionale all’Accordo fra la Santa Sede e il Burkina Faso sullo statuto giuridico della Chiesa Cattolica in Burkina Faso e dell’Accordo fra la Santa Sede e la Repubblica Ceca su alcune questioni giuridiche, siglati nel corso dell’anno passato. Nell’ottobre scorso è stato poi rinnovato per un ulteriore quadriennio l’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei Vescovi, segno della volontà di proseguire un dialogo rispettoso e costruttivo in vista del bene della Chiesa cattolica nel Paese e di tutto il popolo cinese. Da parte mia, ho inteso ricambiare tale affetto con i viaggi apostolici recentemente compiuti, che mi hanno portato a visitare terre lontane come l’Indonesia, la Papua Nuova Guinea, Timor Leste e Singapore, e più vicine come il Belgio e il Lussemburgo e, infine, la Corsica. Sebbene siano realtà evidentemente molto diverse tra loro, ogni viaggio è per me l’occasione di poter incontrare e dialogare con popoli, culture ed esperienze religiose differenti, e di portare una parola di incoraggiamento e di conforto, specialmente alle persone più vulnerabili. A tali viaggi si sommano le tre visite che ho compiuto in Italia a Verona, Venezia e Trieste.

La gratitudine alle autorità italiane

Proprio alle Autorità italiane, nazionali e locali, desidero significare in modo speciale, all’inizio di quest’anno giubilare, l’espressione della mia gratitudine per l’impegno che hanno profuso per preparare Roma al Giubileo. Il lavoro incessante di questi mesi, che ha recato non pochi disagi, viene ora ripagato dal miglioramento di alcuni servizi e spazi pubblici, così che tutti, cittadini, pellegrini e turisti, possano godere ancor più delle bellezze della Città eterna. Ai romani, noti per la loro ospitalità, rivolgo un pensiero particolare, ringraziandoli per la pazienza che hanno avuto negli ultimi mesi e per quella che avranno nell’accogliere i numerosi visitatori che giungeranno. Desidero, altresì, rivolgere un sentito ringraziamento a tutte le Forze dell’ordine, alla Protezione Civile, alle autorità sanitarie e ai volontari che si prodigano quotidianamente per garantire la sicurezza e un sereno svolgimento del Giubileo.

I conflitti in atto

Nelle parole del profeta Isaia, che il Signore Gesù fa proprie nella sinagoga di Nazareth all’inizio della sua vita pubblica, secondo il racconto tramandatoci dall’evangelista Luca, troviamo compendiato non solo il mistero del Natale da poco celebrato, ma anche quello del Giubileo che stiamo vivendo. Il Cristo è venuto «a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore». Purtroppo, iniziamo questo anno mentre il mondo si trova lacerato da numerosi conflitti, piccoli e grandi, più o meno noti e anche dalla ripresa di esecrabili atti di terrore, come quelli recentemente avvenuti a Magdeburgo in Germania e a New Orleans negli Stati Uniti. Vediamo pure che in tanti Paesi ci sono sempre più contesti sociali e politici esacerbati da crescenti contrasti. Siamo di fronte a società sempre più polarizzate, nelle quali cova un generale senso di paura e di sfiducia verso il prossimo e verso il futuro. Ciò è aggravato dal continuo creare e diffondersi di fake news, che non solo distorcono la realtà dei fatti, ma finiscono per distorcere le coscienze, suscitando false percezioni della realtà e generando un clima di sospetto che fomenta l’odio, pregiudica la sicurezza delle persone e compromette la convivenza civile e la stabilità di intere nazioni. Ne sono tragiche esemplificazioni gli attentati subiti dal Presidente del Governo della Repubblica Slovacca e dal Presidente eletto degli Stati Uniti d’America. Tale clima di insicurezza spinge a erigere nuove barriere e a tracciare nuovi confini, mentre altri, come quello che da oltre cinquant’anni divide l’isola di Cipro e quello che da oltre settanta taglia in due la penisola coreana, rimangono saldamente in piedi, separando famiglie e sezionando case e città. I confini moderni pretendono di essere linee di demarcazione identitarie, dove le diversità sono motivo di diffidenza, sfiducia e paura: «Ciò che proviene di là non è affidabile, perché non è conosciuto, non è familiare, non appartiene al villaggio. […] Di conseguenza si creano nuove barriere di autodifesa, così che non esiste più il mondo ed esiste unicamente il “mio” mondo, fino al punto che molti non vengono più considerati esseri umani con una dignità inalienabile e diventano semplicemente “quelli”». Paradossalmente, il termine confine indica non un luogo che separa, bensì che unisce, “dove si finisce insieme” (cum-finis), dove si può incontrare l’altro, conoscerlo, dialogare con lui.

L’augurio

Il mio augurio per questo nuovo anno è che il Giubileo possa rappresentare per tutti, cristiani e non, un’occasione per ripensare anche le relazioni che ci legano, come esseri umani e comunità politiche; per superare la logica dello scontro e abbracciare invece la logica dell’incontro; perché il tempo che ci attende non ci trovi vagabondi disperati, ma pellegrini di speranza, ossia persone e comunità in cammino impegnate a costruire un futuro di pace. D’altronde, di fronte alla sempre più concreta minaccia di una guerra mondiale, la vocazione della diplomazia è quella di favorire il dialogo con tutti, compresi gli interlocutori considerati più “scomodi” o che non si riterrebbero legittimati a negoziare. È questa l’unica via per spezzare le catene di odio e vendetta che imprigionano e per disinnescare gli ordigni dell’egoismo, dell’orgoglio e della superbia umana, che sono la radice di ogni volontà belligerante che distrugge.

La diplomazia della speranza

Alla luce di queste brevi considerazioni, vorrei tracciare con voi questa mattina, a partire dalle parole del profeta Isaia, alcuni tratti di una diplomazia della speranza, di cui tutti siamo chiamati a farci araldi, affinché le dense nubi della guerra possano essere spazzate via da un rinnovato vento di pace. Più in generale, vorrei evidenziare alcune responsabilità che ogni leader politico dovrebbe tenere presente nell’adempiere le proprie responsabilità, che dovrebbero essere indirizzate all’edificazione del bene comune e allo sviluppo integrale della persona umana. Portare il lieto annuncio ai miseri In ogni epoca e in ogni luogo, l’uomo è sempre stato allettato dall’idea di poter essere autosufficiente, di poter bastare a sé stesso ed essere artefice del proprio destino. Ogni qualvolta si lascia dominare da tale presunzione, si trova costretto da eventi e circostanze esterne a scoprire di essere debole e impotente, povero e bisognoso, afflitto da sciagure spirituali e materiali. In altre parole, scopre di essere misero e di avere bisogno di qualcuno che lo sollevi dalla propria miseria. Numerose sono le miserie del nostro tempo. Mai come in quest’epoca l’umanità ha sperimentato progresso, sviluppo e ricchezza e forse mai come oggi si è trovata sola e smarrita, non di rado a preferire gli animali domestici ai figli. C’è un urgente bisogno di ricevere un lieto annuncio. Un annuncio che, nella prospettiva cristiana, Dio ci offre nella notte di Natale! Tuttavia, ciascuno – anche chi non è credente – può farsi portatore di un annuncio di speranza e di verità. D’altronde, l’essere umano è dotato di un’innata sete di verità. Questa ricerca è una dimensione fondamentale della condizione umana, in quanto ogni persona porta dentro di sé una nostalgia della verità oggettiva e un desiderio inestinguibile di conoscenza. È sempre stato così, ma nel nostro tempo la negazione di verità evidenti sembra avere il sopravvento. Alcuni diffidano delle argomentazioni razionali, ritenute strumenti nelle mani di qualche potere occulto, mentre altri ritengono di possedere in modo univoco la verità che si sono auto-costruiti, esimendosi così dal confronto e dal dialogo con chi la pensa diversamente. Gli uni e gli altri hanno la tendenza a crearsi una propria “verità”, tralasciando l’oggettività del vero. Queste tendenze possono essere incrementate dai moderni mezzi di comunicazione e dall’intelligenza artificiale, abusati come mezzi di manipolazione della coscienza a fini economici, politici e ideologici. Il moderno progresso scientifico, specialmente nell’ambito informatico e della comunicazione, porta con sé indubbi vantaggi per l’umanità. Ci consente di semplificare molti aspetti della vita quotidiana, di rimanere in contatto con le persone care anche se sono fisicamente distanti, di rimanere informati e di aumentare le nostre conoscenze. Tuttavia, non se ne possono tacere i limiti e le insidie, poiché spesso contribuiscono alla polarizzazione, al restringimento delle prospettive mentali, alla semplificazione della realtà, al rischio di abusi, all’ansia e, paradossalmente, all’isolamento, in particolare attraverso l’uso dei social media e dei giochi online.

Le trasformazioni in atto

L’incremento dell’intelligenza artificiale amplifica le preoccupazioni relative ai diritti di proprietà intellettuale, alla sicurezza del lavoro per milioni di persone, al rispetto della privacy e alla protezione dell’ambiente dai rifiuti elettronici (e-waste). Quasi nessun angolo del mondo è rimasto inalterato dall’ampia trasformazione culturale determinata dagli incalzanti progressi della tecnologia, ed è sempre più evidente un allineamento a interessi commerciali, che genera una cultura radicata nel consumismo. Questo sbilanciamento minaccia di sovvertire l’ordine dei valori inerenti alla creazione di relazioni, all’educazione e alla trasmissione dei costumi sociali, mentre i genitori, i parenti più stretti e gli educatori devono rimanere i principali canali di trasmissione della cultura, a vantaggio dei quali i Governi dovrebbero limitarsi a un ruolo di supporto delle loro responsabilità formative. In quest’ottica si colloca anche l’educazione come alfabetizzazione mediatica, volta ad offrire strumenti essenziali per promuovere le capacità di pensiero critico, per dotare i giovani dei mezzi necessari alla crescita personale e alla partecipazione attiva al futuro delle loro società. Una diplomazia della speranza è perciò anzitutto una diplomazia della verità. Laddove viene a mancare il legame fra realtà, verità e conoscenza, l’umanità non è più in grado di parlarsi e di comprendersi, poiché vengono a mancare le fondamenta di un linguaggio comune, ancorato alla realtà delle cose e dunque universalmente comprensibile. Lo scopo del linguaggio è la comunicazione, che ha successo solo se le parole sono precise e se il significato dei termini è generalmente accettato. Il racconto biblico della Torre di Babele mostra che cosa succede quando ciascuno parla solo con “la sua” lingua.

Il bene comune

Comunicazione, dialogo, e impegno per il bene comune richiedono la buona fede e l’adesione a un linguaggio comune. Ciò è particolarmente importante nell’ambito diplomatico, specialmente nei contesti multilaterali. L’impatto e il successo di ogni parola, delle dichiarazioni, risoluzioni e in generale dei testi negoziati dipende da questa condizione. È un dato di fatto che il multilateralismo è forte ed efficace solo quando si concentra sulle questioni trattate e utilizza un linguaggio semplice, chiaro e concordato. Risulta quindi particolarmente preoccupante il tentativo di strumentalizzare i documenti multilaterali – cambiando il significato dei termini o reinterpretando unilateralmente il contenuto dei trattati sui diritti umani – per portare avanti ideologie che dividono, che calpestano i valori e la fede dei popoli. Si tratta infatti di una vera colonizzazione ideologica che, secondo programmi studiati a tavolino, tenta di sradicare le tradizioni, la storia e i legami religiosi dei popoli. Si tratta di una mentalità che, presumendo di aver superato quelle che considera “le pagine buie della storia”, fa spazio alla cancel culture; non tollera differenze e si concentra sui diritti degli individui, trascurando i doveri nei riguardi degli altri, in particolare dei più deboli e fragili. In tale contesto è inaccettabile, ad esempio, parlare di un cosiddetto “diritto all’aborto” che contraddice i diritti umani, in particolare il diritto alla vita. Tutta la vita va protetta, in ogni suo momento, dal concepimento alla morte naturale, perché nessun bambino è un errore o è colpevole di esistere, così come nessun anziano o malato può essere privato di speranza e scartato. Tale approccio risulta particolarmente gravido di conseguenze nell’ambito di diversi organismi multilaterali. Penso in modo particolare all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, di cui la Santa Sede è membro fondatore, avendo preso parte attiva ai negoziati che, mezzo secolo fa, hanno condotto alla Dichiarazione di Helsinki del 1975. È quanto mai urgente recuperare lo “spirito di Helsinki”, con il quale gli Stati contrapposti e considerati “nemici” sono riusciti a creare uno spazio d’incontro, e non abbandonare il dialogo come strumento per risolvere i conflitti.

Garantire la pace

Al contrario, le istituzioni multilaterali, la maggior parte delle quali è sorta al termine della Seconda guerra mondiale, ottant’anni fa, non sembrano più in grado di garantire la pace e la stabilità, la lotta contro la fame e lo sviluppo per i quali erano state create, né di rispondere in modo davvero efficace alle nuove sfide del XXI secolo, quali le questioni ambientali, di salute pubblica, culturali e sociali, nonché le sfide poste dall’intelligenza artificiale. Molte di esse necessitano di essere riformate, tenendo presente che qualsiasi riforma deve essere costruita sui principi di sussidiarietà e solidarietà e nel rispetto di una sovranità paritaria degli Stati, mentre duole constatare che c’è il rischio di una “monadologia” e della frammentazione in like-minded clubs che lasciano entrare solo quanti la pensano allo stesso modo. Ciononostante, non sono mancati e non mancano segni incoraggianti, laddove c’è la buona volontà di incontrarsi. Penso al Trattato di pace e di amicizia tra Argentina e Cile, firmato nella Città del Vaticano il 29 novembre 1984, che, con la mediazione della Santa Sede e la buona volontà della Parti, ha posto fine alla disputa del Canale di Beagle, dimostrando che pace e amicizia sono possibili quando due membri della Comunità internazionale rinunciano all’uso della forza e si impegnano solennemente a rispettare tutte le regole del diritto internazionale e a promuovere la cooperazione bilaterale. Più recentemente, penso ai segnali positivi di una ripresa dei negoziati per ritornare alla piattaforma dell’accordo sul nucleare iraniano, con l’obiettivo di garantire un mondo più sicuro per tutti.

Fasciare le piaghe dei cuori spezzati

Una diplomazia della speranza è pure una diplomazia di perdono, capace, in un tempo pieno di conflitti aperti o latenti, di ritessere i rapporti lacerati dall’odio e dalla violenza, e così fasciare le piaghe dei cuori spezzati delle troppe vittime. Il mio auspicio per questo 2025 è che tutta la Comunità internazionale si adoperi anzitutto per porre fine alla guerra che da quasi tre anni insanguina la martoriata Ucraina e che ha causato un enorme numero di vittime, inclusi tanti civili. Qualche segno incoraggiante è apparso all’orizzonte, ma molto lavoro è ancora necessario per costruire le condizioni di una pace giusta e duratura e per sanare le ferite inflitte dall’aggressione. Allo stesso modo rinnovo l’appello a un cessate-il-fuoco e alla liberazione degli ostaggi israeliani a Gaza, dove c’è una situazione umanitaria gravissima e ignobile, e chiedo che la popolazione palestinese riceva tutti gli aiuti necessari. Il mio auspicio è che Israeliani e Palestinesi possano ricostruire i ponti del dialogo e della fiducia reciproca, a partire dai più piccoli, affinché le generazioni a venire possano vivere fianco a fianco nei due Stati, in pace e sicurezza, e Gerusalemme sia la “città dell’incontro”, dove convivono in armonia e rispetto i cristiani, gli ebrei e i musulmani. Proprio nel giugno scorso, nei giardini vaticani, abbiamo ricordato tutti insieme il decimo anniversario dell’Invocazione per la Pace in Terra Santa che l’8 giugno 2014 vide la presenza dell’allora Presidente dello Stato d’Israele, Shimon Peres, e del Presidente dello Stato di Palestina, Mahmoud Abbas, insieme al Patriarca Bartolomeo I. Quell’incontro aveva testimoniato che il dialogo è sempre possibile e che non possiamo arrenderci all’idea che l’inimicizia e l’odio tra i popoli abbiano il sopravvento. Occorre tuttavia rilevare anche che la guerra è alimentata dal continuo proliferare di armi sempre più sofisticate e distruttive. Reitero stamani l’appello affinché «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa». La guerra è sempre un fallimento! Il coinvolgimento dei civili, soprattutto bambini, e la distruzione delle infrastrutture non sono solo una disfatta, ma equivalgono a lasciare che tra i due contendenti l’unico a vincere sia il male. Non possiamo minimamente accettare che si bombardi la popolazione civile o si attacchino infrastrutture necessarie alla sua sopravvivenza. Non possiamo accettare di vedere bambini morire di freddo perché sono stati distrutti ospedali o è stata colpita la rete energetica di un Paese. Tutta la Comunità internazionale sembra apparentemente essere d’accordo sul rispetto del diritto internazionale umanitario; tuttavia, la sua mancata piena e concreta realizzazione pone delle domande. Se abbiamo dimenticato cosa c’è alla base, le fondamenta stesse della nostra esistenza, della sacralità della vita, dei principi che muovono il mondo, come possiamo pensare che tale diritto sia effettivo? È necessaria una riscoperta di questi valori, e che essi a loro volta si incarnino in precetti della pubblica coscienza, affinché sia davvero il principio di umanità alla base dell’agire. Pertanto, auspico che quest’anno giubilare sia un tempo propizio in cui la Comunità internazionale si adoperi attivamente affinché i diritti inviolabili dell’uomo non siano sacrificati a fronte di esigenze militari.

Il diritto internazionale umanitario

Su tali presupposti, chiedo che si continui a lavorare affinché l’inosservanza del diritto internazionale umanitario non sia più un’opzione. Sono necessari ulteriori sforzi perché venga dato effetto a quanto discusso anche durante la 34ª Conferenza Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, che ha avuto luogo lo scorso ottobre a Ginevra. È stato da poco celebrato il 75° Anniversario delle Convenzioni di Ginevra, e rimane indispensabile che le norme e i principi su cui esse si fondano trovino compimento negli ancora troppi teatri di guerra aperti. Tra questi penso ai diversi conflitti che persistono nel continente africano, in modo particolare nel Sudan, nel Sahel, nel Corno d’Africa, in Mozambico, dove c’è una grave crisi politica in atto, e nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo, dove la popolazione è colpita da pesanti carenze sanitarie e umanitarie, aggravate talvolta dalla piaga del terrorismo, che provocano perdite di vite umane e lo sfollamento di milioni di persone. A ciò si aggiungono gli effetti devastanti delle inondazioni e della siccità, che peggiorano le già precarie condizioni di varie parti dell’Africa. La prospettiva di una diplomazia del perdono non è però chiamata solo a sanare i conflitti internazionali o regionali. Essa investe ciascuno della responsabilità di farsi artigiano di pace, perché si possano edificare società realmente pacifiche, in cui le legittime differenze politiche, ma anche sociali, culturali, etniche e religiose costituiscano una ricchezza e non una sorgente di odio e divisione. Il mio pensiero va in modo particolare al Myanmar, dove la popolazione soffre grandemente a causa dei continui scontri armati, che obbligano la gente a fuggire dalle proprie case e a vivere nella paura. Duole poi constatare che permangono, specialmente nel continente americano, diversi contesti di acceso scontro politico e sociale. Penso ad Haiti, dove auspico che si possano quanto prima compiere i passi necessari per ristabilire l’ordine democratico e fermare la violenza. Penso pure al Venezuela e alla grave crisi politica in cui si dibatte. Essa potrà essere superata solo attraverso l’adesione sincera ai valori della verità, della giustizia e della libertà, attraverso il rispetto della vita, della dignità e dei diritti di ogni persona – anche di quanti sono stati arrestati in seguito alle vicende dei mesi scorsi –, attraverso il rifiuto di ogni tipo di violenza e, auspicabilmente, l’avvio di negoziati in buona fede e finalizzati al bene comune del Paese. Penso alla Bolivia, che sta attraversando una preoccupante situazione politica, sociale ed economica; come pure alla Colombia, dove confido che con l’aiuto di tutti si possa superare la molteplicità dei conflitti che hanno lacerato il Paese da troppo tempo. Penso, infine, al Nicaragua, dove la Santa Sede, che è sempre disponibile a un dialogo rispettoso e costruttivo, segue con preoccupazione le misure adottate nei confronti di persone e istituzioni della Chiesa e auspica che la libertà religiosa e gli altri diritti fondamentali siano adeguatamente garantiti a tutti.

La libertà religiosa

Effettivamente non c’è vera pace se non viene garantita anche la libertà religiosa, che implica il rispetto della coscienza dei singoli e la possibilità di manifestare pubblicamente la propria fede e l’appartenenza ad una comunità. In tal senso preoccupano molto le crescenti espressioni di antisemitismo, che condanno fortemente e che interessano un sempre maggior numero di comunità ebraiche nel mondo. Non posso tacere le numerose persecuzioni contro varie comunità cristiane spesso perpetrate da gruppi terroristici, specialmente in Africa e in Asia, e neppure le forme più “delicate” di limitazione della libertà religiosa che si riscontrano talvolta anche in Europa, dove crescono norme legali e prassi amministrative che «limitano o annullano di fatto i diritti che formalmente le Costituzioni riconoscono ai singoli credenti e ai gruppi religiosi”. Al riguardo, desidero ribadire che la libertà religiosa costituisce «un’acquisizione di civiltà politica e giuridica», poiché, quando essa «è riconosciuta, la dignità della persona umana è rispettata nella sua radice, e si rafforzano l’ethos e le istituzioni dei popoli». I cristiani possono e vogliono contribuire attivamente all’edificazione delle società in cui vivono. Anche laddove non sono maggioranza nella società, essi sono cittadini a pieno titolo, specialmente in quelle terre in cui abitano da tempo immemorabile. Mi riferisco in modo particolare alla Siria, che dopo anni di guerra e devastazione, sembra stia percorrendo una via di stabilità. Auspico che l’integrità territoriale, l’unità del popolo siriano e le necessarie riforme costituzionali non siano compromesse da nessuno, e che la Comunità internazionale aiuti la Siria ad essere terra di convivenza pacifica dove tutti i siriani, inclusa la componente cristiana, possano sentirsi pienamente cittadini e partecipare al bene comune di quella cara Nazione. Parimenti penso all’amato Libano, auspicando che il Paese, con l’aiuto determinante della componente cristiana, possa avere la necessaria stabilità istituzionale per affrontare la grave situazione economica e sociale, ricostruire il sud del Paese colpito dalla guerra e implementare pienamente la Costituzione e gli Accordi di Taif. Tutti i libanesi lavorino affinché il volto del Paese dei Cedri non sia mai sfigurato dalla divisione, ma risplenda sempre per il “vivere insieme” e il Libano rimanga un Paese-messaggio di coesistenza e di pace.

Proclamare la libertà degli schiavi

Duemila anni di cristianesimo hanno contribuito a eliminare la schiavitù da ogni ordinamento giuridico. Ciononostante, esistono ancora molteplici forme di schiavitù, a cominciare da quella poco riconosciuta ma assai praticata che interessa il lavoro. Troppe persone vivono schiave del proprio lavoro, trasformato da mezzo in fine della propria vita, e spesso sono schiave di condizioni lavorative disumane, in termini di sicurezza, orari di lavoro e salario. Occorre adoperarsi per creare condizioni degne di lavoro e perché il lavoro, di per sé nobile e nobilitante, non diventi un ostacolo per la realizzazione e la crescita della persona umana. Nello stesso tempo, è necessario garantire che esistano effettive possibilità di lavoro, specialmente laddove una diffusa disoccupazione favorisce il lavoro nero e conseguentemente la criminalità. Esiste poi l’orribile schiavitù delle tossicodipendenze, che colpisce specialmente i giovani. È inaccettabile vedere quante vite, famiglie e Paesi, vengono rovinati da tale piaga, che sembra dilagare sempre più, anche per l’avvento di droghe sintetiche spesso mortali, rese ampiamente disponibili dall’esecrabile fenomeno del narcotraffico. Tra le altre schiavitù del nostro tempo, una delle più tremende è quella praticata dai trafficanti di uomini: persone senza scrupoli, che sfruttano il bisogno di migliaia di persone in fuga da guerre, carestie, persecuzioni o dagli effetti dei cambiamenti climatici e in cerca di un luogo sicuro per vivere. Una diplomazia della speranza è una diplomazia di libertà, che richiede l’impegno condiviso della Comunità internazionale per eliminare questo miserabile commercio. In pari tempo, occorre prendersi cura delle vittime di questi traffici, che sono i migranti stessi, costretti a percorrere a piedi migliaia di chilometri in America centrale come nel deserto del Sahara, o ad attraversare il mare Mediterraneo o il canale della Manica in imbarcazioni di fortuna sovraffollate, per poi finire respinti o trovarsi clandestini in una terra straniera. Dimentichiamo facilmente che ci troviamo davanti a persone che occorre accogliere, proteggere, promuovere e integrare.

Le migrazioni

Con grande sconforto rilevo, invece, che le migrazioni sono ancora coperte da una nube scura di diffidenza, invece di essere considerate una fonte di accrescimento. Si considerano le persone in movimento solo come un problema da gestire. Esse non possono venire assimilate a oggetti da collocare, ma hanno una dignità e risorse da offrire agli altri; hanno i loro vissuti, bisogni, paure, aspirazioni, sogni, capacità, talenti. Solo in questa prospettiva si potranno fare passi avanti per affrontare un fenomeno che richiede un apporto congiunto da parte di tutti i Paesi, anche attraverso la creazione di percorsi regolari sicuri. Rimane poi cruciale affrontare le cause profonde dello spostamento, affinché lasciare la propria casa per cercarne un’altra sia una scelta e non un “obbligo di sopravvivenza”. In tale prospettiva, ritengo fondamentale un impegno comune a investire nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, per contribuire a sradicare alcune delle cause che inducono le persone a emigrare. Proclamare la scarcerazione dei prigionieri. La diplomazia della speranza è infine una diplomazia di giustizia, senza la quale non può esservi pace. L’anno giubilare è un tempo favorevole per praticare la giustizia, per rimettere i debiti e commutare le pene dei prigionieri. Non vi è però debito che consenta ad alcuno, compreso lo Stato, di esigere la vita di un altro. Al riguardo, reitero il mio appello perché la pena di morte sia eliminata in tutte le Nazioni, poiché essa non trova oggi giustificazione alcuna tra gli strumenti atti a riparare la giustizia. D’altra parte, non possiamo dimenticare che in un certo senso siamo tutti prigionieri, perché siamo tutti debitori: lo siamo verso Dio, verso gli altri e anche verso la nostra amata Terra, dalla quale traiamo l’alimento quotidiano. Come ho richiamato nell’annuale Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, «ciascuno di noi deve in qualche modo sentirsi responsabile per la devastazione a cui è sottoposta la nostra casa comune».

Il clima

Sempre più la natura sembra ribellarsi all’azione dell’uomo, mediante manifestazioni estreme della sua potenza. Ne sono un esempio le devastanti alluvioni che si sono verificate in Europa centrale e in Spagna, come pure i cicloni che hanno colpito in primavera il Madagascar e, poco prima di Natale, il Dipartimento francese di Mayotte e il Mozambico. Non possiamo rimanere indifferenti a tutto ciò! Non ne abbiamo il diritto! Piuttosto, abbiamo il dovere di esercitare il massimo sforzo per la cura della nostra casa comune e di coloro che la abitano e la abiteranno. Nel corso della COP 29 a Baku sono state adottate decisioni per garantire maggiori risorse finanziarie per l’azione climatica. Mi auguro che esse consentano la condivisione delle risorse a favore dei molti Paesi vulnerabili alla crisi climatica e sui quali grava il fardello di un debito economico opprimente. In quest’ottica, mi rivolgo alle nazioni più benestanti perché condonino i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Non si tratta solo di un atto di solidarietà o magnanimità, ma soprattutto di giustizia, gravata anche da una nuova forma di iniquità di cui oggi siamo sempre più consapevoli: il “debito ecologico”, in particolare tra il Nord e il Sud. Anche in funzione del debito ecologico, è importante individuare modalità efficaci per convertire il debito estero dei Paesi poveri in politiche e programmi efficaci, creativi e responsabili di sviluppo umano integrale. La Santa Sede è pronta ad accompagnare questo processo nella consapevolezza che non ci sono frontiere o barriere, politiche o sociali, dietro le quali ci si possa nascondere.

L’auspicio

Nella prospettiva cristiana il Giubileo è un tempo di grazia. E come vorrei che questo 2025 fosse veramente un anno di grazia, ricco di verità, di perdono, di libertà, di giustizia e di pace! «Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene» e ciascuno di noi è chiamato a farla fiorire intorno a sé. È questo il mio più cordiale augurio a tutti voi, cari Ambasciatori, alle vostre famiglie, ai governi e ai popoli che rappresentate: che la speranza fiorisca nei nostri cuori e il nostro tempo trovi la pace che tanto desidera.

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