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Papa Francesco, Lettera ai futuri sacerdoti

Il Santo Padre scrive ai candidati al sacerdozio, ricordando il "Ruolo della letteratura nella formazione", in occasione della memoria liturgica del Curato d'Ars

Riportiamo di seguito, in forma integrale, la Lettera redatta da Papa Francesco “Sul ruolo della letteratura nella formazione”, diffusa in occasione della memoria liturgica di san Giovanni Maria Vianney e indirizzata ai candidati al sacerdozio:

 

1. Inizialmente avevo scritto un titolo riferito alla formazione sacerdotale, ma poi ho pensato che, analogamente, queste cose si possono dire circa la formazione di tutti gli agenti pastorali, come pure di qualsiasi cristiano. Mi riferisco al valore della lettura di romanzi e poesie nel cammino di maturazione personale.

2. Spesso nella noia delle vacanze, nel caldo e nella solitudine di alcuni quartieri deserti, trovare un buon libro da leggere diventa un’oasi che ci allontana da altre scelte che non ci fanno bene. Poi non mancano i momenti di stanchezza, di rabbia, di delusione, di fallimento, e quando neanche nella preghiera riusciamo a trovare ancora la quiete dell’anima, un buon libro ci aiuta almeno a passare la tempesta, finché possiamo avere un po’ più di serenità. E forse quella lettura ci apre nuovi spazi interiori che ci aiutano ad evitare una chiusura in quelle poche idee ossessive che ci intrappolano in maniera inesorabile. Prima della onnipresenza dei media, dei social, dei cellulari e di altri dispositivi, questa era un’esperienza frequente, e quanti l’hanno sperimentata sanno bene di cosa sto parlando. Non si tratta di qualcosa di superato.

3. A differenza dei media audiovisivi, dove il prodotto è più completo e il margine e il tempo per “arricchire” la narrazione o interpretarla sono solitamente ridotti, nella lettura di un libro il lettore è molto più attivo. In qualche modo riscrive l’opera, la amplifica con la sua immaginazione, crea un mondo, usa le sue capacità, la sua memoria, i suoi sogni, la sua stessa storia piena di drammi e simbolismi, e in questo modo ciò che emerge è un’opera ben diversa da quella che l’autore voleva scrivere. Un’opera letteraria è così un testo vivo e sempre fecondo, capace di parlare di nuovo in molti modi e di produrre una sintesi originale con ogni lettore che incontra. Nella lettura, il lettore si arricchisce di ciò che riceve dall’autore, ma questo allo stesso tempo gli permette di far fiorire la ricchezza della propria persona, così che ogni nuova opera che legge rinnova e amplia il proprio universo personale.

4. Questo mi porta a valutare molto positivamente il fatto che, almeno in alcuni Seminari, si superi l’ossessione per gli schermi -e per le velenose, superficiali e violente fake news- e si dedichi tempo alla letteratura, ai momenti di serena e gratuita lettura, a parlare su questi libri, nuovi o vecchi, che continuano a dirci tante cose. Ma in generale si deve, con rammarico, constatare che nel percorso formativo di chi è avviato al ministero ordinato, l’attenzione alla letteratura non trova al momento un’adeguata collocazione. Quest’ultima è spesso considerata, infatti, come una forma di intrattenimento, ovvero come un’espressione minore della cultura che non apparterrebbe al cammino di preparazione e dunque all’esperienza pastorale concreta dei futuri sacerdoti. Tranne poche eccezioni, l’attenzione alla letteratura viene considerata come qualcosa di non essenziale. Al riguardo, desidero affermare che tale impostazione non va bene. È all’origine di una forma di grave impoverimento intellettuale e spirituale dei futuri presbiteri, che vengono in tal modo privati di un accesso privilegiato, tramite appunto la letteratura, al cuore della cultura umana e più nello specifico al cuore dell’essere umano.

5. Con questo scritto, desidero proporre un radicale cambio di passo circa la grande attenzione che, nel contesto della formazione dei candidati al sacerdozio, si deve prestare alla letteratura. A tal proposito, trovo assai efficace ciò che afferma un teologo:

«La letteratura […] scaturisce dalla persona in ciò che questa ha di più irriducibile, nel suo mistero […]. È la vita che prende coscienza di sé stessa quando raggiunge la pienezza di espressione, facendo appello a tutte le risorse del linguaggio». [1]

6. La letteratura ha così a che fare, in un modo o nell’altro, con ciò che ciascuno di noi desidera dalla vita, poiché entra in un rapporto intimo con la nostra esistenza concreta, con le sue tensioni essenziali, con i suoi desideri e i suoi significati.

7. Questo l’ho imparato da giovane con i miei studenti. Tra il 1964 e il 1965, a 28 anni, sono stato professore di Letteratura a Santa Fe presso una scuola di gesuiti. Insegnavo agli ultimi due anni del Liceo e dovevo fare in modo che i miei alunni studiassero El Cid. Ma ai ragazzi non piaceva. Chiedevano di leggere García Lorca. Allora ho deciso che avrebbero studiato El Cid a casa, e durante le lezioni io avrei trattato gli autori che piacevano di più ai ragazzi. Ovviamente loro volevano leggere le opere letterarie contemporanee. Ma, leggendo queste cose che li attiravano sul momento, prendevano gusto più in generale alla letteratura, alla poesia, e poi passavano ad altri autori. Alla fine, il cuore cerca di più, ed ognuno trova la sua strada nella letteratura [2]. Io, ad esempio, amo gli artisti tragici, perché tutti potremmo sentire le loro opere come nostre, come espressione dei nostri propri drammi. Piangendo per la sorte dei personaggi, piangiamo in fondo per noi stessi ed i nostri vuoti, le nostre mancanze, la nostra solitudine. Naturalmente, non vi sto chiedendo di fare le stesse letture che ho fatto io. Ognuno troverà quei libri che parleranno alla propria vita e che diventeranno dei veri compagni di viaggio. Non c’è niente di più controproducente che leggere qualcosa per obbligo, facendo uno sforzoconsiderevole solo perché altri hanno detto che è essenziale. No, dobbiamo selezionare le nostre letture con apertura, sorpresa, flessibilità, lasciandoci consigliare, ma anche con sincerità, cercando di trovare ciò di cui abbiamo bisogno in ogni momento della nostra vita.

Fede e cultura

8. Inoltre, per un credente che vuole sinceramente entrare in dialogo con la cultura del suo tempo, o semplicemente con la vita delle persone concrete, la letteratura diventa indispensabile. A buona ragione, il Concilio Vaticano II sostiene che «la letteratura e le arti […] cercano di esprimere l’indole propria dell’uomo» e «di illustrare le sue miserie e le sue gioie, i suoi bisogni e le sue capacità». [3] La letteratura prende, in verità, spunto dalla quotidianità della vita, dalle sue passioni e dalle sue vicende reali come «l’azione, il lavoro, l’amore, la morte e tutte le povere cose che riempiono la vita». [4]

9. Come possiamo raggiungere il centro delle antiche e nuove culture se ignoriamo, scartiamo e/o mettiamo a tacere i loro simboli, i messaggi, le creazioni e le narrazioni con cui hanno catturato e voluto svelare ed evocare le loro imprese e gli ideali più belli, così come le loro violenze, paure e passioni più profonde? Come possiamo parlare al cuore degli uomini se ignoriamo, releghiamo o non valorizziamo “quelle parole” con cui hanno voluto manifestare e, perché no, rivelare il dramma del loro vivere e del loro sentire attraverso romanzi e poesie?

10. La missione ecclesiale ha saputo dispiegare tutta la sua bellezza, freschezza e novità nell’incontro con le diverse culture -tante volte grazie alla letteratura- in cui si è radicata senza paura di mettersi in gioco e di estrarne il meglio di ciò che ha trovato. È un atteggiamento che l’ha liberata dalla tentazione di un solipsismo assordante e fondamentalista che consiste nel credere che una certa grammatica storico-culturale abbia la capacità di esprimere tutta la ricchezza e la profondità del Vangelo. [5] Molte delle profezie di sventura che oggi tentano di seminare disperazione sono radicate proprio in questo aspetto. Il contatto con i diversi stili letterari e grammaticali permetterà sempre di approfondire la polifonia della Rivelazione senza ridurla o impoverirla alle proprie esigenze storiche o alle proprie strutture mentali.

11. Non è così un caso che il cristianesimo delle origini, ad esempio, avesse bene intuito la necessità di un serrato confronto con la cultura classica del tempo. Un Padre della Chiesa d’Oriente come Basilio di Cesarea, ad esempio, nel suo Discorso ai giovani, composto tra il 370 e il 375, indirizzato probabilmente ai suoi nipoti, esaltava la preziosità della letteratura classica –prodotta dagli éxothen (“quelli di fuori”), come lui chiamava gli autori pagani– sia per l’argomentare, cioè per i lógoi (“discorsi”) da usare nella teologia e nell’esegesi, sia per la stessa testimonianza nella vita, ossia per le práxeis (“gli atti, i comportamenti”) da tenere in considerazione nell’ascetica e nella morale. E concludeva spingendo i giovani cristiani a considerare i classici un ephódion (“viatico”) per la loro istruzione e formazione, ricavandone “profitto per l’anima” (IV, 8-9). Ed è proprio da quell’incontro dell’evento cristiano con la cultura dell’epoca che è venuta fuori un’originale rielaborazione dell’annuncio evangelico.

12. Grazie al discernimento evangelico della cultura, è possibile riconoscere la presenza dello Spirito nella variegata realtà umana, è possibile, cioè, cogliere il seme già piantato della presenza dello Spirito negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali. Possiamo ad esempio riconoscere negli Atti degli Apostoli, lì dove si parla della presenza di Paolo all’Areopago (cfr. At 17,16-34), un simile approccio. Paolo, parlando di Dio, afferma: «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: “Poiché di lui stirpe noi siamo» ( At 17,28). In questo versetto sono presenti due citazioni: una indiretta nella prima parte, dove si cita il poeta Epimenide (VI sec. a. C.), ed una diretta, che cita i Fenomeni del poeta Arato di Silo (III sec. a. C.), il quale canta le costellazioni e i segni del buono e cattivo tempo. Qui «Paolo si rivela “lettore” di poesia e lascia intuire il suo modo di accostarsi al testo letterario, che non può non far riflettere in ordine a un discernimento evangelico della cultura. Egli viene definito dagli ateniesi spermologos, cioè “cornacchia, chiacchierone, ciarlatano”, ma letteralmente “raccoglitore di semi”. Quella che era certamente un’ingiuria sembra, paradossalmente, una verità profonda. Paolo raccoglie i semi della poesia pagana e, uscendo da un precedente atteggiamento di profonda indignazione (cfr. At 17,16), giunge a riconoscere gli ateniesi come “religiosissimi” e vede in quelle pagine della loro letteratura classica una vera e propria preparatio evangelica» [6].

13. Che cosa ha fatto Paolo? Egli ha compreso che la “letteratura scopre gli abissi che abitano l’uomo, mentre la rivelazione, e poi la teologia, li assumono per dimostrare come Cristo giunge ad attraversarli e a illuminarli” [7]. In direzione di questi abissi, la letteratura è dunque una “via d’accesso”, [8] che aiuta il pastore a entrare in un fecondo dialogo con la cultura del suo tempo.

Mai un Cristo senza carne

14. Prima di approfondire le ragioni specifiche per le quali è da promuovere l’attenzione alla letteratura nel cammino di formazione dei futuri sacerdoti, mi sia concesso richiamare qui un pensiero circa il contesto religioso attuale: «Il ritorno al sacro e la ricerca spirituale che caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui. Ma più dell’ateismo, oggi abbiamo di fronte la sfida di rispondere adeguatamente alla sete di Dio di molta gente, perché non cerchino di spegnerla con proposte alienanti o con un Gesù Cristo senza carne». [9] L’urgente compito dell’annuncio del Vangelo nel nostro tempo richiede, dunque, ai credenti e ai sacerdoti in particolare l’impegno a che tutti possano incontrarsi con un Gesù Cristo fatto carne, fatto umano, fatto storia. Dobbiamo stare tutti attenti a non perdere mai di vista la “carne” di Gesù Cristo: quella carne fatta di passioni, emozioni, sentimenti, racconti concreti, mani che toccano e guariscono, sguardi che liberano e incoraggiano, di ospitalità, di perdono, di indignazione, di coraggio, di intrepidezza: in una parola, di amore.

15. Ed è proprio a questo livello che un’assidua frequentazione della letteratura può rendere i futuri sacerdoti e tutti gli agenti pastorali ancora più sensibili alla piena umanità del Signore Gesù, in cui si riversa pienamente la sua divinità, e annunciare il Vangelo in modo che tutti, davvero tutti, possano sperimentare quanto sia vero ciò che dice il Concilio Vaticano II: «in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo». [10] Ciò non vuol dire il mistero di un’umanità astratta, ma il mistero di quell’essere umano concreto con tutte le ferite, i desideri, i ricordi e le speranze della sua vita.

Un grande bene

16. Da un punto di vista pragmatico, molti scienziati sostengono che l’abitudine a leggere produca molti effetti positivi nella vita della persona: la aiuta ad acquisire un vocabolario più ampio e di conseguenza a sviluppare vari aspetti della sua intelligenza. Stimola anche l’immaginazione e la creatività. Allo stesso tempo, questo permette di imparare ad esprimere in modo più ricco le proprie narrazioni. Migliora anche la capacità di concentrazione, riduce i livelli di deterioramento cognitivo, calma lo stress e l’ansia.

17. Meglio ancora: ci prepara a comprendere e quindi ad affrontare le varie situazioni che possono presentarsi nella vita. Nella lettura ci tuffiamo nei personaggi, nelle preoccupazioni, nei drammi, nei pericoli, nelle paure delle persone che hanno superato alla fine le sfide della vita, o forse durante la lettura diamo consigli ai personaggi che in seguito serviranno a noi stessi.

18. Per tentare di incoraggiare ancora alla lettura, cito volentieri alcuni testi di autori molto conosciuti, che con poche parole ci insegnano tanto:

I romanzi scatenano «in noi nello spazio di un’ora tutte le possibili gioie e sventure che, nella vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima parte, e di cui le più intense non ci verrebbero mai rivelate giacché la lentezza con la quale si producono ce ne impedisce la percezione». [11]

«Leggendo le grandi opere della letteratura divento migliaia di uomini e, allo stesso tempo, rimango me stesso. Come il cielo notturno della poesia greca, vedo con una miriade di occhi, ma sono sempre io a vedere. Qui, come nella religione, nell’amore, nell’azione morale e nella conoscenza, supero me stesso, eppure, quando lo faccio, sono più me stesso che mai». [12]

19. Comunque, non è la mia intenzione soffermarmi soltanto su questo livello di utilità personale, ma riflettere sulle ragioni più decisive per risvegliare l’amore per la lettura.

Ascoltare la voce di qualcuno

20. Quando il mio pensiero si rivolge alla letteratura, mi viene in mente ciò che il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges [13] diceva ai suoi studenti: la cosa più importante è leggere, entrare in contatto diretto con la letteratura, immergersi nel testo vivo che ci sta davanti, più che fissarsi sulle idee e i commenti critici. E Borges spiegava questa idea ai suoi studenti dicendo loro che forse all’inizio avrebbero capito poco di ciò che stavano leggendo, ma che in ogni caso essi avrebbero ascoltato “la voce di qualcuno”. Ecco una definizione di letteratura che mi piace molto: ascoltare la voce di qualcuno. E non si dimentichi quanto sia pericoloso smettere di ascoltare la voce dell’altro che ci interpella! Si cade subito nell’autoisolamento, si accede ad una sorta di sordità “spirituale”, la quale incide negativamente pure sul rapporto con noi stessi e sul rapporto con Dio, a prescindere da quanta teologia o psicologia abbiamo potuto studiare.

21. Percorrendo questa via, che ci rende sensibili al mistero degli altri, la letteratura ci fa imparare a toccare il loro cuore. Come non ricordare a questo punto la parola coraggiosa che, il 7 maggio del 1964, san Paolo VI rivolse agli artisti e dunque anche ai grandi scrittori? Diceva: «Noi abbiamo bisogno di voi. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri». [14] Ecco il punto: compito dei credenti, e dei sacerdoti in particolare, è proprio “toccare” il cuore dell’essere umano contemporaneo affinché si commuova e si apra dinanzi all’annuncio del Signore Gesù ed in questo loro impegno l’apporto che la letteratura e la poesia possono offrire è di ineguagliabile valore.

22. T.S. Eliot, il poeta a cui lo spirito cristiano deve opere letterarie che hanno segnato la contemporaneità, ha giustamente descritto la crisi religiosa moderna come quella di una diffusa “incapacità emotiva”. [15] Alla luce di questa lettura della realtà, oggi il problema della fede non è innanzitutto quello di credere di più o di credere di meno nelle proposizioni dottrinali. È piuttosto quello legato all’incapacità di tanti di emozionarsi davanti a Dio, davanti alla sua creazione, davanti agli altri esseri umani. C’è qui, dunque, il compito di guarire e di arricchire la nostra sensibilità. Per questo, al mio ritorno dal Viaggio Apostolico in Giappone, quando mi hanno chiesto che cosa ha da imparare l’Occidente dall’Oriente, ho risposto: «credo che all’Occidente manchi un po’ di poesia». [16]

Una sorta di palestra di discernimento

23. Che cosa, allora, guadagna il sacerdote da questo contatto con la letteratura? Perché è necessario considerare e promuovere la lettura dei grandi romanzi come una componente importante della paideia sacerdotale? Perché è importante recuperare e implementare nel percorso formativo dei candidati al sacerdozio l’intuizione, delineata dal teologo Karl Rahner, di un’affinità spirituale profonda tra sacerdote e poeta? [17]

24. Proviamo a rispondere a questi interrogativi, ascoltando le considerazioni del teologo tedesco. [18] Le parole del poeta, scrive Rahner, sono “piene di nostalgia”, sono «porte che si aprono sull’infinito, porte che si spalancano sull’immensità. Esse evocano l’ineffabile, tendono verso l’ineffabile». Questa parola poetica «si affaccia sull’infinito, ma non può darci questo infinito, né può portare o nascondere in sé colui che è l’Infinito». Questo è proprio della Parola di Dio, infatti, e –prosegue Rahner– «la parola poetica invoca dunque la parola di Dio». [19] Per i cristiani la Parola è Dio e tutte le parole umane recano traccia di una intrinseca nostalgia di Dio, tendendo verso quella Parola. Si può dire che la parola veramente poetica partecipa analogicamente della Parola di Dio, come ce la presenta in maniera dirompente la Lettera agli Ebrei (cfr. Eb 4, 12-13).

25. Ed è così che Karl Rahner può stabilire un bel parallelo tra il sacerdote e il poeta: «solo la parola è intimamente capace di liberare ciò che trattiene in prigionia tutte le realtà inespresse: il mutismo della loro tendenza verso Dio». [20]

26. Nella letteratura, poi, sono in gioco questioni di forma di espressione e di senso. Essa rappresenta pertanto una sorta di palestra di discernimento, che affina le capacità sapienziali di scrutinio interiore ed esteriore del futuro sacerdote. Il luogo nel quale si apre questa via di accesso alla propria verità è l’interiorità del lettore, implicato direttamente nel processo della lettura. Ecco dunque dispiegarsi lo scenario del discernimento spirituale personale dove non mancheranno le angosce e persino le crisi. Infatti, sono numerose le pagine letterarie che possono rispondere alla definizione ignaziana di «desolazione».

27. «Si intende per desolazione […] l’oscurità dell’anima, il turbamento interiore, lo stimolo verso le cose basse e terrene, l’inquietudine dovuta a diverse agitazioni e tentazioni: così l’anima s’inclina alla sfiducia, è senza speranza e senza amore, e si ritrova pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore». [21]

28. Il dolore o la noia che si provano leggendo certi testi non sono necessariamente brutte o inutili sensazioni. Lo stesso Ignazio di Loyola aveva notato che in «coloro che procedono di male in peggio» lo spirito buono agisce provocando inquietudine, agitazione, insoddisfazione. [22] Questa sarebbe l’applicazione letterale della prima regola ignaziana del discernimento degli spiriti riservata a coloro che «vanno di peccato mortale in peccato mortale» e cioè che in tali persone lo spirito buono si comporta «pungendole e rimordendo la loro coscienza con la sinderesi della ragione» [23] per portarli al bene e alla bellezza.

29. Si capisce così che il lettore non è il destinatario di un messaggio edificante, ma è una persona che viene attivamente sollecitata ad inoltrarsi su un terreno poco stabile dove i confini tra salvezza e perdizione non sono a priori definiti e separati. L’atto della lettura è, allora, come un atto di “discernimento”, grazie al quale il lettore è implicato in prima persona come “soggetto” di lettura e, nello stesso tempo, come “oggetto” di ciò che legge. Leggendo un romanzo o un’opera poetica, in realtà il lettore vive l’esperienza di “venire letto” dalle parole che legge. [24] Così il lettore è simile ad un giocatore sul campo: egli fa il gioco ma nello stesso tempo il gioco si fa attraverso di lui, nel senso che egli è totalmente coinvolto in ciò che agisce [25].

Attenzione e digestione

30. Per quanto riguarda i contenuti, si deve riconoscere che la letteratura è come “un telescopio” –secondo la celebre immagine coniata da Proust [26] – puntato su esseri e cose, indispensabile per mettere a fuoco “la grande distanza” che il quotidiano scava tra la nostra percezione e l’insieme dell’esperienza umana. «La letteratura è come un laboratorio fotografico, nel quale è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco, dunque, a cosa “serve” la letteratura: a “sviluppare” le immagini della vita» [27], a interrogarci sul suo significato. Serve, in poche parole, a fare efficacemente esperienza della vita.

31. E, in verità, il nostro sguardo ordinario sul mondo è come “ridotto” e limitato a causa della pressione che gli scopi operativi e immediati del nostro agire esercitano su di noi. Anche il servizio – cultuale, pastorale, caritativo – può diventare un imperativo che indirizza le nostre forze e la nostra attenzione solo sugli obiettivi da raggiungere. Ma, come ricorda Gesù nella parabola del seminatore, il seme ha bisogno di cadere in un terreno profondo per maturare fecondamente nel tempo, senza essere soffocato dalla superficialità o dalle spine (Mt 13,18-23). Il rischio diventa così quello di cadere in un efficientismo che banalizza il discernimento, impoverisce la sensibilità e riduce la complessità. È perciò necessario ed urgente controbilanciare questa inevitabile accelerazione e semplificazione del nostro vivere quotidiano imparando a prendere le distanze da ciò che è immediato, a rallentare, a contemplare e ad ascoltare. Questo può accadere quando una persona si ferma gratuitamente a leggere un libro.

32. È necessario recuperare modi di rapportarsi alla realtà ospitali, non strategici, non direttamente finalizzati a un risultato, in cui sia possibile lasciar emergere l’eccedenza infinita dell’essere. Distanza, lentezza, libertà sono i caratteri di un approccio al reale che trova proprio nella letteratura una forma di espressione non certo esclusiva ma privilegiata. La letteratura diventa allora una palestra dove allenare lo sguardo a cercare ed esplorare la verità delle persone e delle situazioni come mistero, come cariche di un eccesso di senso, che può essere solo parzialmente manifestata in categorie, schemi esplicativi, in dinamiche lineari di causa-effetto, mezzo-fine.

33. Un’altra bella immagine per dire il ruolo della letteratura viene dalla fisiologia dell’apparato umano ed in particolare dall’atto della digestione. Qui il suo modello è dato dalla ruminatio della mucca, come affermavano il monaco dell’XI secolo Guillaume de Saint-Thierry e il gesuita del XVII secolo Jean-Joseph Surin. Quest’ultimo a sua volta parla di “stomaco dell’anima” ed il gesuita Michel De Certeau ha indicato una vera e propria “fisiologia della lettura digestiva”. [28] Ecco: la letteratura ci aiuta a dire la nostra presenza nel mondo, a “digerirla” e assimilarla, cogliendo ciò che va oltre la superficie del vissuto; serve, dunque, a interpretare la vita, discernendone i significati e le tensioni fondamentali [29].

Vedere attraverso gli occhi degli altri

34. Per quanto riguarda la forma di discorso, accade questo: leggendo un testo letterario, siamo messi in condizione di «vedere attraverso gli occhi degli altri», [30] acquisendo un’ampiezza di prospettiva che allarga la nostra umanità. Si attiva così in noi il potere empatico dell’immaginazione, che è veicolo fondamentale per quella capacità di identificazione con il punto di vista, la condizione, il sentire altrui, senza la quale non si dà solidarietà, condivisione, compassione, misericordia. Leggendo scopriamo che ciò che sentiamo non è soltanto nostro, è universale, e così anche la persona più abbandonata non si sente sola.

35. La meravigliosa diversità dell’essere umano e la pluralità diacronica e sincronica di culture e saperi si configurano nella letteratura in un linguaggio capace di rispettarne ed esprimerne la varietà, ma al tempo stesso vengono tradotte in una grammatica simbolica del senso che ce le rende intelligibili, non estranee, condivise. L’originalità della parola letteraria consiste nel fatto che essa esprime e trasmette la ricchezza dell’esperienza non oggettivandola nella rappresentazione descrittiva del sapere analitico o nell’esame normativo del giudizio critico, ma come contenuto di uno sforzo espressivo ed interpretativo di dare senso all’esperienza in questione.

36. Quando si legge una storia, grazie alla visione dell’autore ognuno immagina a modo suo il pianto di una ragazza abbandonata, l’anziana che copre il corpo del suo nipote addormentato, la passione di un piccolo imprenditore che tenta di andare avanti malgrado le difficoltà, l’umiliazione di chi si sente criticato da tutti, il ragazzo che sogna come unica via di uscita dal dolore di una vita miserabile e violenta. Mentre sentiamo tracce del nostro mondo interiore in mezzo a quelle storie, diventiamo più sensibili di fronte alle esperienze degli altri, usciamo da noi stessi per entrare nelle loro profondità, possiamo capire un po’ di più le loro fatiche e desideri, vediamo la realtà con i loro occhi e alla fine diventiamo compagni di cammino. Così ci immergiamo nell’esistenza concreta ed interiore del fruttivendolo, della prostituta, del bambino che cresce senza i genitori, della donna del muratore, della vecchietta che ancora crede che troverà il suo principe. E possiamo farlo con empatia e alle volte con tolleranza e comprensione.

37. Jean Cocteau scrisse a Jacques Maritain: «La letteratura è impossibile, bisogna uscirne, ed è inutile cercare di tirarsene fuori con la letteratura perché solo l’amore e la fede ci consentono di uscire da noi stessi». [31] Ma veramente usciamo da noi stessi se non ci bruciano nel cuore le sofferenze e le gioie degli altri? Preferisco ricordare che, essendo cristiani, niente che sia umano mi è indifferente.

38. Inoltre, la letteratura non è relativista, perché non ci spoglia di criteri di valore. La rappresentazione simbolica del bene e del male, del vero e del falso, come dimensioni che nella letteratura prendono corpo di esistenze individuali e di vicende storiche collettive, non neutralizza il giudizio morale ma impedisce ad esso di diventare cieco o superficialmente condannatorio. «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?» – ci chiede Gesù (Mt 7, 3).

39. E nella violenza, limitatezza o fragilità altrui, abbiamo la possibilità di riflettere meglio sulla nostra. Nell’aprire al lettore un’ampia visione della ricchezza e della miseria dell’esperienza umana, la letteratura educa il suo sguardo alla lentezza della comprensione, all’umiltà della non semplificazione, alla mansuetudine del non pretendere di controllare il reale e la condizione umana attraverso il giudizio. Vi è certo bisogno del giudizio, ma non si deve mai dimenticare la sua portata limitata: mai, infatti, il giudizio deve tradursi in sentenza di morte, in cancellazione, in soppressione dell’umanità a vantaggio di un’arida totalizzazione della legge.

40. Lo sguardo della letteratura forma il lettore al decentramento, al senso del limite, alla rinuncia al dominio, cognitivo e critico, sull’esperienza, insegnandogli una povertà che è fonte di straordinaria ricchezza. Nel riconoscere l’inutilità e forse pure l’impossibilità di ridurre il mistero del mondo e dell’essere umano ad una antinomica polarità di vero/falso o giusto/ingiusto, il lettore accoglie il dovere del giudizio non come strumento di dominio ma come spinta verso un ascolto incessante e come disponibilità a mettersi in gioco in quella straordinaria ricchezza della storia dovuta alla presenza dello Spirito, che si dà anche come Grazia: ovvero come evento imprevedibile e incomprensibile che non dipende dall’azione umana, ma ridefinisce l’umano come speranza di salvezza.

La potenza spirituale della letteratura

41. Confido di aver evidenziato, in queste brevi riflessioni, il ruolo che la letteratura può svolgere nell’educare il cuore e la mente del pastore o del futuro pastore in direzione di un esercizio libero e umile della propria razionalità, di un riconoscimento fecondo del pluralismo dei linguaggi umani, di un ampliamento della propria sensibilità umana, e infine di una grande apertura spirituale per ascoltare la Voce attraverso tante voci.

42. In questo senso la letteratura aiuta il lettore ad infrangere gli idoli dei linguaggi autoreferenziali, falsamente autosufficienti, staticamente convenzionali, che a volte rischiano di inquinare anche il nostro discorso ecclesiale, imprigionando la libertà della Parola. Quella letteraria è una parola che mette in moto il linguaggio, lo libera e lo purifica: lo apre, infine, alle proprie ulteriori possibilità espressive ed esplorative, lo rende ospitale per la Parola che prende casa nella parola umana, non quando essa si auto comprende come sapere già pieno, definitivo e compiuto, ma quando essa si fa vigilia di ascolto e attesa di Colui che viene per fare nuove tutte le cose (cfr. Ap 21, 5).

43. La potenza spirituale della letteratura richiama, da ultimo, il compito primario affidato da Dio all’uomo: il compito di “nominare” gli esseri e le cose (cfr. Gn 2, 19-20). La missione di custode del creato, assegnata da Dio ad Adamo, passa innanzitutto proprio dalla riconoscenza della realtà propria e del senso che ha l’esistenza degli altri esseri. Il sacerdote è anche investito di questo compito originario di “nominare”, di dare senso, di farsi strumento di comunione tra il creato e la Parola fatta carne e della sua potenza di illuminazione di ogni aspetto della condizione umana.

44. L’affinità tra sacerdote e poeta si manifesta così in questa misteriosa e indissolubile unione sacramentale tra Parola divina e parola umana, dando vita ad un ministero che diviene servizio pieno di ascolto e di compassione, ad un carisma che si fa responsabilità, ad una visione del vero e del bene che si schiude come bellezza. Non possiamo fare a meno di ascoltare le parole che ci ha lasciato il poeta Paul Celan: «Chi impara realmente a vedere, si avvicina all’invisibile».

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