Riportiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata da Papa Francesco in occasione della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Il Santo Padre, nella Basilica Vaticana, benedici i Palli, presi dalla Confessione dell’Apostolo Pietro e destinati agli Arcivescovi Metropoliti nominati nel corso dell’anno. Il Pallio verrà poi imposto a ciascun Arcivescovo Metropolita dal Rappresentante Pontificio nella rispettiva Sede Metropolitana. Come di consueto in occasione della Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni della Città di Roma, è presente alla Santa Messa una Delegazione del Patriarcato Ecumenico guidata dal Metropolita di Calcedonia Emmanuel Adamakis, accompagnato dal Metropolita greco ortodosso di Buenos Aires Iosif Bosch e dal Diacono Patriarcale Barnabas Grigoriadis.
Il testo integrale dell’omelia di Papa Francesco
“Festeggiamo oggi due grandi Apostoli del Vangelo e due colonne portanti della Chiesa: Pietro e Paolo. Guardiamo da vicino questi due testimoni della fede: al centro della loro storia non c’è la loro bravura, ma l’incontro con Cristo che ha cambiato la loro vita. Hanno fatto l’esperienza di un amore che li ha guariti e liberati e, per questo, sono diventati apostoli e ministri di liberazione per gli altri. Pietro e Paolo sono liberi solo perché sono stati liberati. Soffermiamoci su questo punto centrale. Pietro, il pescatore di Galilea, è stato anzitutto liberato dal senso di inadeguatezza e dall’amarezza del fallimento, e questo è avvenuto grazie all’amore incondizionato di Gesù. Pur essendo un esperto pescatore, ha sperimentato più volte, nel cuore della notte, il gusto amaro della sconfitta per non aver pescato nulla (cfr Lc 5,5; Gv 21,5) e, davanti alle reti vuote, ha avuto la tentazione di tirare i remi in barca; pur essendo forte e impetuoso, si è fatto prendere spesso dalla paura (cfr Mt 14,30); pur essendo un appassionato discepolo del Signore, ha continuato a ragionare secondo il mondo senza riuscire a comprendere e accogliere il significato della Croce del Cristo (cfr Mt 16,22); pur dicendosi pronto a dare la vita per Lui, gli è bastato sentirsi sospettato di essere dei suoi per spaventarsi e arrivare a rinnegare il Maestro (cfr Mc 14,66-72). Eppure Gesù lo ha amato gratuitamente e ha scommesso su di lui. Lo ha incoraggiato a non arrendersi, a gettare ancora le reti in mare, a camminare sulle acque, a guardare con coraggio alla propria debolezza, a seguirlo sulla via della Croce, a dare la vita per i fratelli, a pascere le sue pecore. Così lo ha liberato dalla paura, dai calcoli basati sulle sole sicurezze umane, dalle preoccupazioni mondane, infondendogli il coraggio di rischiare tutto e la gioia di sentirsi pescatore di uomini. Ha chiamato proprio lui a confermare nella fede i fratelli (cfr Lc 22,32). A lui ha dato – lo abbiamo ascoltato nel Vangelo – le chiavi per aprire le porte che conducono all’incontro con il Signore e il potere di legare e sciogliere: legare i fratelli a Cristo e sciogliere i nodi e le catene della loro vita (cfr Mt 16,19).
Tutto ciò è stato possibile solo perché – come ci ha raccontato la prima Lettura – Pietro per primo è stato liberato. Le catene che lo tengono prigioniero vengono spezzate e, proprio come era accaduto nella notte della liberazione degli Israeliti dalla schiavitù dell’Egitto, gli viene chiesto di alzarsi in fretta, di mettere la cintura e legarsi i sandali per uscire. E il Signore spalanca le porte davanti a lui (cfr At 12,7-10). È una nuova storia di apertura, di liberazione, di catene spezzate, di uscita dalla prigionia che rinchiude. Pietro fa l’esperienza della Pasqua: il Signore lo ha liberato.
Anche l’Apostolo Paolo ha sperimentato la liberazione da parte di Cristo. È stato liberato dalla schiavitù più opprimente, quella del suo io, e da Saulo, nome del primo re di Israele, è diventato Paolo, che significa “piccolo”. È stato liberato anche dallo zelo religioso che lo aveva reso accanito nel sostenere le tradizioni ricevute (cfr Gal 1,14) e violento nel perseguitare i cristiani. L’osservanza formale della religione e la difesa a spada tratta della tradizione, invece che aprirlo all’amore di Dio e dei fratelli, lo avevano irrigidito. Da questo Dio lo liberò; e, invece, non gli risparmiò tante debolezze e difficoltà che resero più feconda la sua missione evangelizzatrice: le fatiche dell’apostolato, l’infermità fisica (cfr Gal 4,13-14); le violenze e le persecuzioni, i naufragi, la fame e la sete, e, come egli stesso racconta, una spina che lo tormentò nella carne (cfr 2 Cor 12,7-10). Paolo ha così compreso che «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1 Cor 1,27), che tutto possiamo in Lui che ci dà forza (cfr Fil 4,13), che niente può mai separarci dal Suo amore (cfr Rm 8,35-39). Per questo, alla fine della sua vita – ce lo ha narrato la Seconda Lettura – Paolo può dire: «il Signore mi è stato vicino» e «mi libererà da ogni male» (2 Tm 4,17.18). Paolo ha fatto l’esperienza della Pasqua: il Signore lo ha liberato.
Cari fratelli e sorelle, la Chiesa guarda a questi due giganti della fede e vede due Apostoli che hanno liberato la potenza del Vangelo nel mondo, solo perché sono stati prima liberati dall’incontro con Cristo. Egli non li ha giudicati, non li ha umiliati, ma ha condiviso la loro vita con affetto e vicinanza, sostenendoli con la sua stessa preghiera e, qualche volta, richiamandoli per scuoterli al cambiamento. A Pietro, Gesù dice teneramente: «Io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede» (Lc 22,32); a Paolo chiede: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4). Così Gesù fa anche con noi: ci assicura la sua vicinanza pregando per noi e intercedendo presso il Padre; e ci rimprovera con dolcezza quando sbagliamo, perché possiamo ritrovare la forza di rialzarci e riprendere il cammino. Toccati dal Signore, anche noi veniamo liberati. E abbiamo sempre bisogno di venire liberati, perché solo una Chiesa libera è una Chiesa credibile.
Come Pietro, siamo chiamati a essere liberi dal senso della sconfitta dinanzi alla nostra pesca talvolta fallimentare; a essere liberi dalla paura che ci immobilizza e ci rende timorosi, chiudendoci nelle nostre sicurezze e togliendoci il coraggio della profezia. Come Paolo, siamo chiamati a essere liberi dalle ipocrisie dell’esteriorità; a essere liberi dalla tentazione di imporci con la forza del mondo anziché con la debolezza che fa spazio a Dio; liberi da un’osservanza religiosa che ci rende rigidi e inflessibili; liberi dai legami ambigui col potere e dalla paura di essere incompresi e attaccati. Pietro e Paolo ci consegnano l’immagine di una Chiesa affidata alle nostre mani, ma condotta dal Signore con fedeltà e tenerezza; di una Chiesa debole, ma forte della presenza di Dio; di una Chiesa liberata che può offrire al mondo quella liberazione che da solo non può darsi: la liberazione dal peccato, dalla morte, dalla rassegnazione, dal senso dell’ingiustizia, dalla perdita della speranza che abbruttisce la vita delle donne e degli uomini del nostro tempo. Chiediamoci: le nostre città, le nostre società, il nostro mondo, quanto hanno bisogno di liberazione? Quante catene vanno spezzate e quante porte sbarrate devono essere aperte! Noi possiamo essere collaboratori di questa liberazione, ma solo se per primi ci lasciamo liberare dalla novità di Gesù e camminiamo nella libertà dello Spirito Santo. Oggi i nostri fratelli Arcivescovi ricevono il Pallio. Questo segno di unità con Pietro ricorda la missione del pastore che dà la vita per il gregge. È donando la vita che il Pastore, liberato da sé, diventa strumento di liberazione per i fratelli. Oggi è con noi la Delegazione del Patriarcato Ecumenico, inviata in questa occasione dal caro fratello Bartolomeo: la vostra gradita presenza è un prezioso segno di unità nel cammino di liberazione dalle distanze che scandalosamente dividono i credenti in Cristo. Preghiamo per voi, per i Pastori, per la Chiesa, per tutti noi: perché, liberati da Cristo, possiamo essere apostoli di liberazione nel mondo intero”.