La voce degli ultimi

domenica 24 Novembre 2024
4.1 C
Città del Vaticano

La voce degli ultimi

domenica 24 Novembre 2024

Papa: “Come il buon samaritano, prendiamoci cura di malati e sofferenti”

Papa: "Non siamo mai pronti per la malattia. Per la fragilità non c’è spazio. E così il male, quando irrompe e ci assale, ci lascia a terra tramortiti"

“Oggi ricorre la Giornata Mondiale del Malato. Come il Buon Samaritano, fermiamoci e prendiamoci cura degli infermi e dei sofferenti. La Madonna di Lourdes benedica tutti i malati e chi li cura con amore”. Lo dice il Papa in un tweet.

Il messaggio di Papa Francesco per la XXXI Giornata del Malato

“Abbi cura di lui”

La compassione come esercizio sinodale di guarigione

Cari fratelli e sorelle! La malattia fa parte della nostra esperienza umana. Ma essa può diventare disumana se è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono, se non è accompagnata dalla cura e dalla compassione. Quando si cammina insieme, è normale che qualcuno si senta male, debba fermarsi per la stanchezza o per qualche incidente di percorso. È lì, in quei momenti, che si vede come stiamo camminando: se è veramente un camminare insieme, o se si sta sulla stessa strada ma ciascuno per conto proprio, badando ai propri interessi e lasciando che gli altri “si arrangino”. Perciò, in questa XXXI Giornata Mondiale del Malato, nel pieno di un percorso sinodale, vi invito a riflettere sul fatto che proprio attraverso l’esperienza della fragilità e della malattia possiamo imparare a camminare insieme secondo lo stile di Dio, che è vicinanza, compassione e tenerezza.

Nel Libro del profeta Ezechiele, in un grande oracolo che costituisce uno dei punti culminanti di tutta la Rivelazione, il Signore parla così: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, […] le pascerò con giustizia» (34,15-16). L’esperienza dello smarrimento, della malattia e della debolezza fanno naturalmente parte del nostro cammino: non ci escludono dal popolo di Dio, anzi, ci portano al centro dell’attenzione del Signore, che è Padre e non vuole perdere per strada nemmeno uno dei suoi figli. Si tratta dunque di imparare da Lui, per essere davvero una comunità che cammina insieme, capace di non lasciarsi contagiare dalla cultura dello scarto.

L’Enciclica Fratelli tutti, come sapete, propone una lettura attualizzata della parabola del Buon Samaritano. L’ho scelta come cardine, come punto di svolta, per poter uscire dalle “ombre di un mondo chiuso” e “pensare e generare un mondo aperto” (cfr n. 56). C’è infatti una connessione profonda tra questa parabola di Gesù e i molti modi in cui oggi la fraternità è negata. In particolare, il fatto che la persona malmenata e derubata viene abbandonata lungo la strada, rappresenta la condizione in cui sono lasciati troppi nostri fratelli e sorelle nel momento in cui hanno più bisogno di aiuto. Distinguere quali assalti alla vita e alla sua dignità provengano da cause naturali e quali invece siano causati da ingiustizie e violenze non è facile. In realtà, il livello delle disuguaglianze e il prevalere degli interessi di pochi incidono ormai su ogni ambiente umano in modo tale, che risulta difficile considerare “naturale” qualunque esperienza. Ogni sofferenza si realizza in una “cultura” e fra le sue contraddizioni.

Ciò che qui importa, però, è riconoscere la condizione di solitudine, di abbandono. Si tratta di un’atrocità che può essere superata prima di qualsiasi altra ingiustizia, perché – come racconta la parabola – a eliminarla basta un attimo di attenzione, il movimento interiore della compassione. Due passanti, considerati religiosi, vedono il ferito e non si fermano. Il terzo, invece, un samaritano, uno che è oggetto di disprezzo, è mosso a compassione e si prende cura di quell’estraneo lungo la strada, trattandolo da fratello. Così facendo, senza nemmeno pensarci, cambia le cose, genera un mondo più fraterno.

Fratelli, sorelle, non siamo mai pronti per la malattia. E spesso nemmeno per ammettere l’avanzare dell’età. Temiamo la vulnerabilità e la pervasiva cultura del mercato ci spinge a negarla. Per la fragilità non c’è spazio. E così il male, quando irrompe e ci assale, ci lascia a terra tramortiti. Può accadere, allora, che gli altri ci abbandonino, o che paia a noi di doverli abbandonare, per non sentirci un peso nei loro confronti. Così inizia la solitudine, e ci avvelena il senso amaro di un’ingiustizia per cui sembra chiudersi anche il Cielo. Fatichiamo infatti a rimanere in pace con Dio, quando si rovina il rapporto con gli altri e con noi stessi. Ecco perché è così importante, anche riguardo alla malattia, che la Chiesa intera si misuri con l’esempio evangelico del buon samaritano, per diventare un valido “ospedale da campo”: la sua missione, infatti, particolarmente nelle circostanze storiche che attraversiamo, si esprime nell’esercizio della cura. Tutti siamo fragili e vulnerabili; tutti abbiamo bisogno di quell’attenzione compassionevole che sa fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare. La condizione degli infermi è quindi un appello che interrompe l’indifferenza e frena il passo di chi avanza come se non avesse sorelle e fratelli.

La Giornata Mondiale del Malato, in effetti, non invita soltanto alla preghiera e alla prossimità verso i sofferenti; essa, nello stesso tempo, mira a sensibilizzare il popolo di Dio, le istituzioni sanitarie e la società civile a un nuovo modo di avanzare insieme. La profezia di Ezechiele citata all’inizio contiene un giudizio molto duro sulle priorità di coloro che esercitano sul popolo un potere economico, culturale e di governo: «Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza» (34,3-4). La Parola di Dio è sempre illuminante e contemporanea. Non solo nella denuncia, ma anche nella proposta. La conclusione della parabola del Buon Samaritano, infatti, ci suggerisce come l’esercizio della fraternità, iniziato da un incontro a tu per tu, si possa allargare a una cura organizzata. La locanda, l’albergatore, il denaro, la promessa di tenersi informati a vicenda (cfr Lc 10,34-35): tutto questo fa pensare al ministero di sacerdoti, al lavoro di operatori sanitari e sociali, all’impegno di familiari e volontari grazie ai quali ogni giorno, in ogni parte di mondo, il bene si oppone al male.

Gli anni della pandemia hanno aumentato il nostro senso di gratitudine per chi opera ogni giorno per la salute e la ricerca. Ma da una così grande tragedia collettiva non basta uscire onorando degli eroi. Il Covid-19 ha messo a dura prova questa grande rete di competenze e di solidarietà e ha mostrato i limiti strutturali dei sistemi di welfare esistenti. Occorre pertanto che alla gratitudine corrisponda il ricercare attivamente, in ogni Paese, le strategie e le risorse perché ad ogni essere umano sia garantito l’accesso alle cure e il diritto fondamentale alla salute.

«Abbi cura di lui» (Lc 10,35) è la raccomandazione del Samaritano all’albergatore. Gesù la rilancia anche ad ognuno di noi, e alla fine ci esorta: «Va’ e anche tu fa’ così». Come ho sottolineato in Fratelli tutti, «la parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune» (n. 67). Infatti, «siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile» (n. 68).

Anche l’11 febbraio 2023, guardiamo al Santuario di Lourdes come a una profezia, una lezione affidata alla Chiesa nel cuore della modernità. Non vale solo ciò che funziona e non conta solo chi produce. Le persone malate sono al centro del popolo di Dio, che avanza insieme a loro come profezia di un’umanità in cui ciascuno è prezioso e nessuno è da scartare.

All’intercessione di Maria, Salute degli infermi, affido ognuno di voi, che siete malati; voi che ve ne prendete cura in famiglia, con il lavoro, la ricerca e il volontariato; e voi che vi impegnate a tessere legami personali, ecclesiali e civili di fraternità. A tutti invio di cuore la mia benedizione apostolica.

Mons. Marcianò (Omi): “Malattia e sofferenza grido che ci interpella”

Malattia e sofferenza rimangono “un grido che ci interpella e interpella particolarmente voi, operatori sanitari. E tanto più ci e vi interpella quanto più non perdiamo di vista che, dietro ogni malattia e sofferenza umana c’è la persona, con il vissuto della sua individualità e fragilità, con la sua speranza e le sue paure, che spesso si sintetizzano nell’unica grande paura della morte”. Lo ha detto l’arcivescovo ordinario militare per l’Italia, mons. Santo Marcianò, celebrando oggi all’ospedale militare del Celio, a Roma, la Giornata mondiale del malato.

Riprendendo il messaggio di Papa Francesco per la Giornata, con l’esortazione “ad affrontare la malattia in modo sinodale”, l’arcivescovo castrense ricorda che “il tempo della malattia e della sofferenza rivela se la comunità umana è fondata o meno sulla fraternità, sulla centralità della persona, specie se fragile”. Da qui la consegna agli operatori sanitari di quattro parole, tratte dal brano del Vangelo della Liturgia odierna: “Fermarsi, avvicinarsi, curare, sollevare”. Fermarsi, come Gesù con il sordomuto, perché è il malato “la vera meta del cammino umano, in particolare del cammino di chi deve servire i malati”. Avvicinarsi: serve a creare “una relazione con il paziente” sottraendolo “all’anonimato della folla che spesso invade i nostri ospedali, gli ambulatori, i vari presidi sanitari”, rendendolo “libero di manifestare con fiducia il proprio vissuto integrale, la propria storia”. Curare: Gesù “cura toccando, senza aver paura delle contaminazioni, fortemente bandite dalla cultura del tempo; cura accarezzando, potremmo dire. Come non vedere qui i vostri gesti di coraggio e tenerezza, spesso incuranti dei rischi durante il Covid? domanda mons. Marcianò che ricorda la “prontezza della Sanità Militare nel soccorrere i fratelli in tragedie, guerre e calamità naturali”.

“Penso al sollievo – ha aggiunto – che assicurate nelle fasi terminali di malattia, anche con l’ausilio delle cosiddette ‘cure palliative’, arginando così una cultura che ha paura di contaminarsi con la realtà della sofferenza e della morte e che sempre più va verso la deriva eutanasica, sconfitta inammissibile per la scienza e la vocazione medica”. Sollevare: “Gesù non solo cura il sordomuto ma lo solleva, restituendogli la capacità di ascoltare e di parlare. Libera l’infermo dall’emarginazione in cui la sua condizione di incomunicabilità con gli altri lo aveva posto, restituendogli piena dignità. Il riconoscimento di tale dignità è un’azione che ripristina il ruolo sociale del malato, in qualunque condizione o fase della malattia egli si trovi. Questa sinodalità nei confronti del malato può diventare modello anche per la comunità civile, spingendo a decisioni politiche, sociali, economiche che tengano sempre al centro i più fragili, e che permettano di fermarsi e avvicinarli, per curarli e sollevarli”.

Fonte: AgenSIR

ARTICOLI CORRELATI

AUTORE

ARTICOLI DI ALTRI AUTORI

Ricevi sempre le ultime notizie

Ricevi comodamente e senza costi tutte le ultime notizie direttamente nella tua casella email.

Stay Connected

Seguici sui nostri social !

Scrivi a In Terris

Per inviare un messaggio al direttore o scrivere un tuo articolo:

Decimo Anniversario