Non si deve pensare che la traduzione del “Padre Nostro“: “Non ci indurre in tentazione” sia carica di errore. Verissimo è, infatti, che il testo originale greco, sia in Mt 6,13, che il Lc 11,4, usa il verbo “eisenekes“, che significa “immettere, portare dentro, entrare”. Tale verbo è pure usato, nel significato di “portare dentro”, in Lc 5,18-19; 12,11; At 17,20; 1Tm 6,7; Eb 13,11. Traducendo letteralmente l’originale greco “Me eisenekes eis peirasmon” si ha: “Non immetterci, oppure non farci entrare, oppure anche non indurci, in tentazione”.
Due proposte
L’esigenza di una traduzione del “Non ci indurre in tentazione” modificata in modo tale da essere intesa dai fedeli venne posta nel convegno sul Padre Nostro in lingua italiana a Perugia, tra il 12 e il 15 aprile 1999. Il convegno venne partecipato ecumenicamente dalla CEI, dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) e dalla Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia. Da parte di un esponente biblista cattolico ci fu la proposta di due traduzioni del passo “Me eisenekes eis peirasmon”: “Non ci abbandonare alla tentazione”, e “Non ci abbandonare nella tentazione”. Già la “Bible de Jèrusalem” (1998) traduceva: “Non lasciarci entrare nella tentazione”. Il convegno non arrivò, però, a modificare la consolidata traduzione italiana basata sul latino “Ne nos inducas in tentationem”. In seguito la traduzione “Non ci abbandonare alla tentazione” fu recepita nella seconda edizione (2008) della Bibbia CEI; la prima è del 1971. Tale traduzione era, infatti, in sintonia con il testo greco, evitando il “non ci indurre”.
Il parere del Papa
Papa Bergoglio nell’intervista su Tv2000 del 6 dicembre scorso, ha optato per la scelta dei francesi di tradurre: “Non lasciarci cadere nella tentazione”, presentando l’altra opzione che si ebbe nel convegno di Perugia: “Non abbandonarci nella tentazione”. Le ragioni per cui tale traduzione è fortemente pastorale e non esegetica sono evidenti, e il web non ha mancato di farlo notare. Tuttavia è possibile che, a livello di esplicitazione pastorale, la Chiesa possa “liturgicizzare” il testo biblico in: “Non ci abbandonare nella tentazione”. Ma, appunto, si tratta solo di una liturgizzazione. In effetti, la traduzione “Non ci abbandonare alla tentazione” aveva qualche cosa in più, circa la ricchezza del “me eisenekes eis peirasmon”. Poste così le cose bisogna cercare di considerare la forza del testo greco.
L'aiuto di Dio
E' subito chiaro che Dio non tenta nessuno, come ben esplicita Giacomo (Gc 1,13). Per capire il versetto in greco della preghiera insegnata da Gesù bisogna ricorrere a un testo di san Paolo (1Cor 10,12): “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla”. In questo testo si trovano tre punti. Il primo è che la tentazione è permessa da Dio, cioè non parte da lui. Il secondo punto è che la tentazione non è mai superiore alle forze che uno possiede, proprio perché sotto la permissione di Dio. Il terzo è che nella tentazione Dio dà la “via d’uscita e la forza per sopportarla”: La “via d’uscita” è la Verità, cioè Cristo stesso, vivente nella Chiesa; la forza è la grazia dello Spirito Santo, che è Spirito di fortezza.
I limiti imposti alla tentazione
Se Dio permette la tentazione, ne segue che c’è un richiedente che vuole produrre la tentazione. Il testo di Giobbe spiega questa dinamica: è Satana che chiede a Dio di poter colpire Giobbe. Si tratta di una sfida dell’invidioso contro Dio. Satana dice a Dio che non può trarre gloria da Giobbe, perché Giobbe è stato beneficato in tutto. Se tutto sarà tolto a Giobbe allora si vedrà se Giobbe ama Dio. Satana è così il tentatore e insieme anche l’accusatore, che getta il discredito sui fedeli a Dio, e pone la sfida.
Mai sfidare Satana
Le parole “me eisenekes eis peirasmon” chiedono umilmente a Dio di non permettere – possibilmente – che si riceva l’urto, l’insidia della tentazione, anche quella feroce, estrema, che si avvale di umana violenza cieca. Satana, tuttavia, sottostà alla sovranità di Dio, e non è quindi libero di fare quello che vuole, e dunque agisce solo per quanto Dio gli permette. Non s’intende, ovviamente, avere la volontà di sottrarci alla lotta, ma si dice umilmente che riconosciamo la nostra debolezza e non ci mettiamo a sfidare il tentatore, dicendogli che lo vinceremo, perché Satana prevarrebbe, anzi ha già prevalso nel momento in cui lo sfidiamo. Santa Caterina de Vigri cadde nell’errore di sfidare, non con sfida di protervia, Satana dicendogli che lo avrebbe sempre riconosciuto nei suoi inganni, e per diverso tempo Satana poté per questo ingannarla, fino a quando la santa non manifestò a un sacerdote il tutto. Nella pochezza delle nostre forze non ci azzardiamo di sfidare Satana, come può accadere.
Una richiesta umile
Per orientarci ancora guardiamo al salmo: “Poni, Signore, una guardia alla mia bocca, sorveglia la porta delle mie labbra. Non piegare il mio cuore al male a compiere azioni criminose con i malfattori”. In questi versetti si vede come l’orante chieda a Dio di non piegare il suo cuore al male, ma nello stesso tempo lo prega perché vigili su di lui e lo aiuti nel pericolo, e dunque l’orante non intende che Dio lo pieghi di sua azione al male. Eliminare la parola “inducas”, indurre, e anche l’espressione della Bibbia CEI 2008 “non ci abbandonare alla tentazione”, non è eliminare delle passate erronee traduzioni, ma solo un adattare a noi, dimentichi del latino e poco biblisti (nonostante che il Concilio abbia messo nelle nostre mani la Bibbia), le traduzioni consolidate poiché nella lingua corrente usiamo la parola indurre come sinonimo di “incitare, spingere, trascinare, procurare”.
Prova
Si potrebbe aggiungere, in un contesto, che non è affatto di tentazione, ma di prova, quanto si legge in Deuteronomio (13,4): “Il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima”. Si può citare anche Giovanni 6,6: “Diceva così per metterlo alla prova”. E’ prova, non tentazione, la quale vuol fare cadere nell’inimicizia con Dio, sebbene sia vero che anche una tentazione è in fondo anch’essa una prova.