Nell’estate di ottant'anni fa il giovane Karol Wojtyla andò a vivere a Cracovia per fare l’università, ma il 1 settembre del 1939 il paese fu sconvolto dall’invasione nazista, ricorda Edoardo Angione ricostruendo la biografia di Giovanni Paolo II. “Non soltanto gli ebrei, ma anche i leader religiosi e culturali della Polonia cattolica vennero deportati in massa dai nazisti, che consideravano gli slavi una razza inferiore – sottolinea – Karol Wojtyla ed il padre provarono a scappare verso est, per scoprire che la parte orientale della Polonia era stata nel frattempo invasa dai sovietici. In questo periodo, pur continuando a studiare in clandestinità, il futuro papa Giovanni Paolo II lavorò in una fabbrica chimica, trovando anche il tempo per scrivere copioni teatrali a tema nazionalista ed iniziare ad interessarsi in modo sempre più appassionato alla spiritualità cattolica”. Si comprende molto del pontificato che ha cambiato la geopolitica del XX secolo tornando alle tragiche vicende di ottanta anni fa. Giovanni Paolo II è passato alla storia anche come il primo Papa dai tempi di San Pietro ad aver messo piede in una sinagoga.
Le radici di un'amicizia
“Aveva conosciuto l’ebraismo dall’interno – analizza Gianfranco Svidercoschi, decano dei vaticanisti, amico e collaboratore di Giovanni Paolo II -. Nella cittadina di Wadowice, dove Karol Wojtyla era nato, la convivenza con gli ebrei faceva parte della quotidianità. Più tardi, come spesso ricorderà, anche lui aveva vissuto “in certo modo” la tragedia della Shoah. Molti dei suoi compagni erano scomparsi in guerra e, quelli ebrei, nei campi di sterminio nazisti”. Insomma, un Papa che, per la sua storia, per le sue esperienze, poteva compiere credibilmente quell’atto di riparazione, di pentimento, e di solidarietà, verso tutti gli ebrei, di ieri e di oggi. Wadowice, negli anni Trenta del secolo scorso, contava circa 10 mila abitanti, e un terzo erano ebrei, tutti con un grande sentimento patriottico. “Cattolici ed ebrei vivevano in un clima di serenità, di amicizia, senza conflitti – spiega Svidercoschi -. Karol Wojtyla aveva in classe molti compagni ebrei; giocava a pallone (di solito in porta) con amici ebrei; ebrea era la ragazza del piano di sopra, Ginka, che lo aveva avvicinato al teatro, recitava con lui”. Ed ebreo era Jerzy Kluger, uno degli amici più cari; Karol Wojtyla lo aveva conosciuto in prima elementare, e ne frequentava la casa, dove andava spesso ad ascoltare la radio o il quartetto musicale, guidato dall’avvocato Kluger, che era anche il presidente della locale comunità ebraica.
Lo sterminio e la rinascita
“Lolek (Karol) e Jurek (Jerzy), com’erano soliti chiamarsi con il vezzeggiativo, erano rimasti assieme, nella stessa classe, fino alla maturità ginnasiale – afferma Svidercoschi-. Scoppiata la Seconda guerra mondiale, Lolek e suo padre erano fuggiti verso Est, ma poi, con l’esercito russo che avanzava da quella parte, erano tornati a Cracovia. Anche Jurek e suo padre avevano tentato la fuga, ma erano finiti nelle mani dei sovietici. Rimaste a casa, a Wadowice, convinte che i nazisti non le avrebbero toccate, le donne della famiglia Kluger (la mamma di Jurek, la sorella, Tesia, vent’anni, e la nonna,quasi cieca) poi scomparse nei campi di sterminio di Auschwitz e di Belzec”. Jurek aveva combattuto in Italia, nell’esercito del generale Anders. Finita la guerra, si era sposato e, dopo l’Inghilterra, era andato a vivere a Roma. “E a Roma, inaspettatamente, aveva incontrato il vecchio amico, Lolek, ch’era diventato arcivescovo di Cracovia e stava partecipando ai lavori del Concilio. Si pensavano morti, invece si erano ritrovati vivi – rievoca Svidercoschi-. E quell’amicizia non si era più interrotta, neanche dopo l’elezione pontificia di Lolek. Il Papa lo invitava ogni tanto a pranzo o a cena; continuavano a darsi del tu, a comportarsi come due compagni di scuola”.
Contro la barbarie hitleriana
Un’amicizia (l’amicizia di una vita) che ebbe una grande eloquenza simbolica in rapporto al dialogo, promosso dal Vaticano II, tra Roma e l’ebraismo. E c'era anche Jurek, quel 13 aprile del 1986, quando il capo della Chiesa cattolica fece quel che, in duemila anni, nessuno dei suoi predecessori aveva osato fare: entrare in una sinagoga. “E lì, nel Tempio Maggiore, di fronte all’amico ebreo, Jurek, di fronte, idealmente, a tutti gli ebrei nel mondo, di fronte alla memoria dei milioni di vittime della bestiale follia hitleriana, il Papa polacco dette nuova forza alle affermazioni del Concilio contro la barbarie dei campi di sterminio, contro l’antisemitismo: richiamò il legame spirituale che unisce indelebilmente ebrei e cristiani – sostiene Svidercoschi -. Alla fine, volle pregare con i “Fratelli maggiori”, come li chiamò: ispirandosi sì alla Sacra Scrittura, ma, per la novità che aveva dentro, con una definizione a dir poco sconvolgente”. Parole ferme, dure, e che, sulla bocca di un Papa, servirono a rompere per sempre con un passato di sospetti, di contrasti. Così come servirono a cancellare quell’”insegnamento del disprezzo” ch’era andato avanti per secoli, fintanto da entrare nei libri liturgici, e, pur indirettamente, ad alimentare l’antisemitismo.