Orfani dell'Isis: grave emergenza sociale

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Gli orfani dell'Isis (o Daesh) “sono una grande emergenza” che chiede una risposta “globale, non solo locale” del governo iracheno che rischia di apparire “insufficiente”. È l'allarme dell’arcivescovo di Kirkuk – città irachena del nord del paese, a circa 250 km dalla capitale Baghdad – mons. Yousif Thoma Mirkis che ha partecipato di recente a un seminario Unicef su bambini e giovani nati o cresciuti sotto il “Califfato” dello Stato islamico in Siria e Iraq.

I rapporti delle ong

Attivisti e ong umanitarie parlano di oltre 1500 minori “intrappolati” all’interno del sistema giudiziario irakeno, perché vittime del lavaggio del cervello e oggi imbevuti di ideologia jihadista. I più piccoli sono detenuti in carcere assieme alle loro madri; in questi ultimi mesi almeno sette sarebbero deceduti a causa delle pessime condizioni di detenzione. Altre centinaia sono a processo per reati di varia natura, dall’immigrazione illegale all’aver combattuto accanto ai miliziani dell’Isis. Fonti ufficiali parlano di 185 bambini e giovani fra i nove e i 18 anni già condannati da pochi mesi di pena fino a un massimo di 15 anni e rinchiusi nel carcere minorile di Baghdad. I minori affiliati all’Isis sono trattati senza riguardi, torturati o perseguitati da carcerieri e detenuti, pur senza sapere il loro reale grado di coinvolgimento nel gruppo. 

Altri ancora a migliaia, pur non incarcerati, vivono in condizioni precarie mendicando per le vie di Mosul alla ricerca del denaro minimo per un pasto o vendendo oggetti di fortuna ai bordi delle strade. Con il rischio, non certo remoto, di essere sfruttati dalla malavita o finire nelle maglie delle bande locali che li sfruttano per denaro. “È una questione aperta – conferma ad AsiaNews l’arcivescovo di Kirkuk – e pericolosa. In un campo vicino a Kobane vivono 35mila persone, la grande maggioranza orfane con il padre ucciso e la madre, quando c’è, che indossa ancora il niqab (il velo integrale)”. La verità, aggiunge il prelato, è che “queste persone sono ancora legate al tempo di Daesh [acronimo arabo dell’Isis] e persino il governo ha paura ad avere a che fare con loro”. Secondo alcune fonti, in quest’area a cavallo fra Iraq e Siria, durante il giogo jihadista sono nate tre milioni di persone e “moltissimi bambini e giovani hanno subito il lavaggio del cervello” dagli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi. Ad oggi né il governo, né le istituzioni e ong umanitarie “seppur partendo da punti di vista diversi” sono riuscite a “fornire una risposta” all’emergenza. L’esecutivo “guarda alla questione da un punto di vista politico”, usando una legge sul terrorismo, la numero 4, “molto dura che prevede sino alla pena di morte. Questa norma ha causato molte altre vedove e orfani. Il governo non si prende cura di loro e chiede alle ong umanitarie di farsene carico”. 

Rimpalli di responsabilità

In questo rimpallo di responsabilità, dal quale non si può considerare esente la comunità internazionale, la questione resta irrisolta. “Molti di questi minori – spiega il prelato – sono nati da combattenti provenienti da Francia, Germania, Belgio o Gran Bretagna e appartengono a questi Paesi. I loro governi devono farsene carico, aiutare l’Iraq e la Siria. Questo è un problema globale, da qui la necessità che tutti collaborino a livello economico, ma soprattutto culturale”. La Chiesa irakena, su impulso del patriarca caldeo e dei vescovi, ha cercato di aiutare questi minori dando loro “pane, acqua, latte e altri generi di prima necessità. Io stesso – prosegue l’arcivescovo – ho chiesto ai fedeli di aiutare alcune famiglie di Daesh rinchiuse in un campo profughi vicino Kirkuk. Tuttavia, le nostre risorse sono limitate ed è molto difficile entrare in contatto con questi bambini. Resta il fatto che non possiamo abbandonarli, perché potrebbero diventare i jihadisti di domani ed è responsabilità del governo e della comunità internazionale occuparsene”. Sul piano militare, conclude il prelato, forse Daesh “è sconfitto, ma la mentalità resta. Questa è la punta dell’iceberg, cui si aggiungono problemi economici, politici, sociali”. 

Milena Castigli: